La Località Sdencina è a poca distanza da Scriò, il luogo da cui derivano le uve per uno dei vini più estrosi della cantina, che si trova sulla sommità di questo rilievo.
È la Tenuta Stella, un’azienda “decantata” da prestigiose testate, dal Gambero Rosso a Boris Maskow, da Robert Parker a Marco Gatti e Paolo Massobrio. Proprio Gatti e Massobrio, per primi, hanno intuito le potenzialità della Tenuta Stella e dei suoi vini inserendoli, nel 2012, nella classifica de “I mille eccellenti vini d’Italia” (pubblicata nel libro, “L’Ascolto del Vino”).
Inoltre, a Golosaria 2012, Tenuta Stella è stata annoverata tra le 35 cantine più meritevoli d’Italia, del 2012.
Siamo a Dolegna del Collio, in provincia di Gorizia, nella parte più alta del Collio.
Appena sotto e tutt’intorno a questo fazzoletto di terra, una distesa di terrazzamenti si adagia sulle marne calcaree, proprio laddove un tempo c’era il mare.
Se ti metti a scavare un po’ più a fondo, rischi d’imbatterti ancora in reperti fossili lasciati lì in seguito al ritiro delle acque marine.
I colli sono il tratto caratteristico di questo territorio.
Sono suggestivi ma ripidi e per allevare la vite in queste condizioni ci vuole un fisico bestiale, soprattutto d’estate, quando le temperature superano i 35 gradi.
I vigneti di Stella sono volti a sud-est, il che permette loro di prendere il sole per gran parte della giornata.
Di giorno, in estate, la calura avvolge con la sua veste ardente le bacche dell’uva scaldando la loro polposa anima e di notte la brezza del mare, lontano non più di trenta chilometri in linea d’aria, le rinfresca.
Proprio questa escursione termica favorisce la maturazione di uve eccezionali con elevata sapidità.
Guardando le vigne hai subito l’idea di una radicata tradizione vitivinicola.
Generazioni di uomini hanno buttato sudore su questa terra e anche quelli che la lavorano oggi, ci mettono impegno, rispetto e attaccamento.
I pali cui si aggrappano i tralci sono tutti di legno con diametri che arrivano anche a più di 15 centimetri.
Gli ettari di questa azienda sono in tutto cinque, su terrazze, con sistemi di allevamento a Guyot, situati a 220-270 metri s.l.m.. La resa è bassa, non più di 40 quintali per ettaro e la resa in vino varia dal 65 al 75% a seconda delle tipologie d’uva.
Le uve sono Ribolla Gialla, Malvasia Istriana, Friulano e Chardonnay.
L’erba viene tagliata 2 volte l’anno e lasciata lì insieme alle foglie, quando la vite si spoglia. È concime.
I grappoli si raccolgono manualmente verso fine agosto per la produzione di basi da spumantizzare.
Le uve restanti, destinate alla produzione di vini fermi, vengono vendemmiate nella seconda metà di settembre, quando sono vellutate, gravide.
Sono scartate quelle che presentano delle imperfezioni (che comunque non sono mai in quantitativi elevati) ma è una selezione assolutamente necessaria per preservare il frutto sano e sfruttarne al meglio la purezza.
L’uso del metabisolfito è ridotto al minimo (di molto inferiore ai limiti imposti dal disciplinare biologico), perché se l’uva è sana e sai quello che finisce nelle vasche o nelle botti, non c’è bisogno di aggiungere tanti additivi. Niente pesticidi e concimi chimici e un uso chirurgico dei trattamenti in vigna.
Questa scarna descrizione da già un’idea precisa della filosofia produttiva cui ci troviamo di fronte, che ha un punto fermo e intransigibile: la genuinità del vino. Questa è la chiave di tutto.
E siccome, prima di tutto, per fare un vino genuino, ci vuole una terra genuina, ecco che la terra diventa il luogo da cui partire per fare un’agricoltura biologica o meglio, una viticoltura culturale.
Un luogo nel quale il legame inscindibile con la vigna è espresso con un concetto che i francesi chiamano terroir. Il terroir definisce l’interazione tra più fattori, quali esposizione, clima, viti e terreno.
E qui il terreno è il caratteristico “flysch” o “ponca” (nel gergo dialettale) tipica del Friuli orientale, risalente al periodo eocenico e di origine marina, frutto di una lenta sedimentazione e costituito da marna friabile (argilla calcarea) che tende facilmente a sgretolarsi sotto l’azione degli agenti atmosferici (pioggia e calore) e arenaria (roccia sedimentaria composta di granuli sabbiosi).
Un suolo e un sottosuolo con una composizione geologica originata in seguito alle varie erosioni intervenute, ricco di magnesio, fosforo e potassio, adatto per produrre uve e, di conseguenza, vini con caratteristiche ideali per struttura e aromi.
La vite per fare buoni frutti cerca proprio le condizioni più difficili e la qualità, prima che in cantina, si fa in collina e nelle colline più difficili.
E poi, se c’è il calcare, allora “c’è la base di tutti i migliori bianchi del mondo” come sostiene Ampelio Bucci, di Villa Bucci, coordinatore del Master in Management del made in Italy, allo IULM di Milano (Università di Lingue e Scienze della Comunicazione con sedi a Milano e Roma), imprenditore dell’agroalimentare e con un grande amore per i vini bianchi.
Con Angelo Boneschi, che è il responsabile marketing della Tenuta Stella, dal 2011, abbiamo deciso di fare la degustazione dei vini di “Stella” alla Locanda Aurilia, di Loreggia in provincia di Padova, al confine con la provincia di Treviso.
L’enoteca dell’Aurilia conta più di 800 etichette di vini di tutte le regioni italiane e delle più importanti zone “foreste” (dal Libano alla Nuova Zelanda).
Una parte importante ce l’hanno i vini regionali (Colli Euganei, Breganze, Friularo di Bagnoli, Montello e Colli Asolani).
C’è anche una sezione dedicata ai vitigni meno conosciuti del territorio come la Recantina, la Rabbiosa, la Pataresca, la Cavarara nonché ad autentiche nicchie come il Savagnin o il Trousseau della zona di Arbois e Chateau-Chalon, nel Jura francese o il Fer-servadoux di una piccolissima zona del Sud Ovest della Francia, solo per citarne alcuni.
Entrare in questo santuario enologico è un’autentica emozione e non puoi fare a meno di rizzare le orecchie per sentire il polline di suono, come direbbe il poeta Clemente Rebora, scendere dagli scaffali e avvolgerti come una sinfonia enoica che solo pochi eletti hanno la fortuna di udire.
Mentre il mio pensiero va ad Angelo per ringraziarlo di avermi fatto partecipe della ristretta cerchia degli illuminati che possono accedere al tempio, ci raggiunge Osorio, fratello di Ferdinando e genuino, schietto, spontaneo artigiano dei fornelli, per avvisarci che il pranzo è servito.
Il Tanni, la Ribolla Gialla, il Friulano e la Malvasia
Nella sala in cui è stato allestito il nostro tavolo aleggiano già i profumi provenienti dalla vicina cucina.
Il luogo è accogliente e verace, senza tutti quegli artifici e quegli stereotipi fin troppo abusati che si porta dietro la cucina moderna.
Le bottiglie di Tanni, Malvasia, Ribolla Gialla e Friulano sono state messe in appositi cestelli refrigerati, sulla credenza al nostro fianco ed ognuna è già stata portata alla giusta temperatura di servizio che è molto vicina a quella di consumo perché ormai le danze stanno per incominciare.
Osorio si prepara con savoir faire a recare i piatti in tavola e Ferdinando è impeccabile nel disporsi a servire i vini.
Partiamo con un antipasto di Sarde in saòr con pinoli e ughetta. È una pietanza agrodolce che, per essere assaporata al meglio, va mangiata dopo alcuni giorni dalla sua preparazione, per far si che le tonalità di gusto e aroma si “affinino” nelle terrine in cui viene conservata.
Era il cibo dei pescatori veneziani che avevano l’esigenza di tenere a bordo delle loro imbarcazioni un alimento che potesse rimanere commestibile il più a lungo possibile.
L’apparente semplicità della preparazione è smentita dalla persistenza organolettica che viene esaltata ogni volta che si porta il calice alla bocca.
E, nel calice, come abbinamento quasi obbligato, c’è la “Ribolla Gialla Brut“.
Un Metodo Classico, 100% ribolla gialla, anno di produzione 2013, con un affinamento di sedici mesi sui lieviti. Uno spumante dal perlage elegante e dai profumi freschi e briosi che rimandano alla fragranza tipica della Ribolla, ai suoi aromi fruttati di pesca bianca e albicocca.
Le note minerali che scalpitano nel bicchiere contribuiscono ad aggiungere vivacità a questo vino.
In bocca si amplifica la freschezza e gli agrumi sgomitano per non farsi sopraffare dalla incipiente sapidità.
La complessità e la sfaccettatura aromatica sono esaltate dalle fini bollicine in una deliziosa avvolgenza che allunga la persistenza gustativa.
Le bollicine sono microcosmi in continua manifestazione da cui scaturiscono ineffabili sostanze aromatiche che accrescono il nostro piacere e in questa Bollicina sono così armoniche da creare un equilibrio perfetto.
Come secondo antipasto ci viene servito il Pomodoro ramato farcito con salsa al basilico.
Il pomodoro è stato spellato, svuotato della sua polpa e riempito con una farcitura di peperoni, zucchine e melanzane.
Arriva in tavola in un largo piatto bianco, su un letto di vellutata salsa al basilico.
Una tavolozza tricolore che, seppur semplice nella proposta degli ingredienti, si rivela di efficace impatto visivo e grande richiamo appetitoso.
Ferdinando lo ha abbinato al “Tanni Pas Dosé“, un Blanc de Blancs, 100% Chardonnay, con una permanenza sui lieviti di 36 mesi.
Il nome non ha niente a che vedere con i tannini (qui di ruvido non c’è niente, anzi!) bensì con Cristiana, una nipote del Cavaliere, detta affettuosamente Tanni.
Il Tanni che stiamo bevendo è della vendemmia 2011 e sboccato da pochi mesi.
Si presenta in bollicine finissime, armoniose, abbondanti e cremose, con una luce brillante di rara intensità.
È intrigante nei profumi che si mutano in vere e proprie emozioni olfattive riecheggianti il sottobosco, i fiori bianchi, le scorze di agrumi. Ma anche tocchi di fine pasticceria come la meringa, che si intersecano tra di loro corroborandosi in una spiccata nota sapida.
È un vino di grande classe e stoffa, di estrema freschezza, con accenti aggraziati ed eleganti.
Deglutisco questo fluido, estasiato e rideglutisco sempre più soddisfatto ma non appagato e lo sento correre lentamente sul palato e progredire di carattere traducendosi in una lunga persistenza in bocca.
“Ostrega” mi viene da dire!
Come se gli avessi lanciato un messaggio subliminale, Ferdinando rabbocca il mio calice e nuovamente rimango incantato dal “lieve mussare della schiuma, come un gemito dolce, una risatina furtiva… Il vino messo a nudo che si avvolge di spume come certe donne di veli e di pizzi…“. Mi lascio trasportare dalla parole poetiche di Gianni Brera, scritte davanti a un bicchiere di vino rosso spumeggiante, ma che sono intriganti anche per questo perlage e guardo verso Ferdinando, il gran cerimoniere che appare quasi per magia con in mano un vassoio fumante di Risotto con frattaglie di pollo allevato a latte e miele.
I polli padovani, sono allevati a terra, a soli cereali (e senza utilizzo di antibiotici) per almeno 150 giorni e, negli ultimi 40, nutriti solo con latte e miele.
Il risotto ha una esecuzione molto complessa. Si parte con la preparazione di un sugo stufando le parti più consistenti delle frattaglie insieme a verdure di stagione e, verso fine cottura, vengono aggiunte le parti molli (fegati) aromatizzandole con aneto, alloro, timo, maggiorana, rosmarino, origano e altre erbe profumate.
Anche il brodo per cuocere il riso viene fatto con rigaglie e verdure di stagione. Il termine rigaglie o regaglie deriva dal latino “regalia” che significa cosa degna di un re ed il piatto che abbiamo davanti è proprio un piatto da re.
I chicchi del riso si amalgamano perfettamente e cremosamente al composto di frattaglie e verdure grazie anche alla sapiente mantecatura fatta non col burro (vade retro!) ma col Parmigiano stagionato, con l’aggiunta di un filo d’olio extra vergine dei Colli Euganei.
Ci vuole un vino ad alta capienza che trovi così il perfetto accordo con un piatto di altrettanta maestria.
Ferdinando ha deciso per il “Collio Ribolla Gialla” DOC, annata 2013, ottenuto da uve ribolla gialla in purezza, maturato per il 20% in barrique di primo passaggio, il 50% in barrique di secondo passaggio e il 30% in acciaio, per 9 mesi e affinato in bottiglia per un anno.
Il colore è bello lucente e il mio naso, accalappiato da intense note minerali, che ben si fondano ad aromi di fiori di campo e frutti polposi, diventa velluto pregiato. In bocca spiccano le note varietali e rustiche della Ribolla con la loro schiettezza.
È asciutto, di notevole freschezza e sapidità, con una leggera nota aspra tipica del vitigno.
Un vino di carattere, lento a svelarsi, che sembra quasi celare il suo spirito ma poi, piano piano, mostra la sua personalità ed eleganza.
Il risotto è finito ma nel bicchiere è rimasta ancora un po’ di Ribolla che centellino pensando al proverbio di queste parti che dice: “El bon vin, i schei e la bravura poco i dura“, ed io voglio farlo durare il più possibile, almeno fino a quando arriva il secondo.
Ed eccolo: il Baccalà con polenta bianco perla.
Il baccalà che abbiamo davanti è quello comunemente identificato come Stoccafisso (merluzzo essiccato e non salato) cotto in tegame con l’aggiunta di sarde sotto sale, prezzemolo, latte, Parmigiano Reggiano e cipolle.
Il piatto è noto come bacalà a la visentina (“bon de sera e de matìna”).
Ferdinando ha deciso di abbinarci il Collio Friulano DOC, annata 2013, con uve 100% friulano, maturato per 12 mesi in vasche di acciaio e poi affinato in bottiglia.
Un vino fresco, avvolgente, complice, di una soavità matura, profonda, vivace.
È un giocatore che gioca per la squadra, completo dal naso alla bocca, senza eccessi ma lineare nella sua grande struttura.
Solo sostanza, possenza e fragranza.
Sopra tutti, gli aromi di pera, mela e pesca ben mature che nel finale lasciano il posto alla mandorla, tipica nel Friulano.
In questo Friulano c’è l’anima vera di questo vitigno.
La sua essenza e le note minerali caratteristiche del territorio, vengono fuori prepotentemente e aiutano a prolungare la freschezza, la lunghezza e la persistenza delle sensazioni. Dentro questo vino c’è una tensione gustativa, una fisicità e una concretezza pulsanti che esprimono la provenienza, l’origine, le radici.
È giunto il momento del Carrello dei formaggi che è il fiore all’occhiello del ristorante, premiato per ricerca e unicità del prodotto. È dura ma non possiamo astenerci.
Angelo ed io siamo formaggiari convinti, con una speciale passione per quelli piemontesi e individuiamo subito un piccolo paradiso: Bitto, Maccagno, Castelmagno, tome d’alpeggio.
Ma c’è anche il Parmigiano Reggiano invecchiato 7 anni, il Caciocavallo Podolico Lucano, pecorini, primo sale, giuncate, erborinati (Stilton, zola, Roquefort).
Un vero carrello da tempio gastronomico, tutta roba di prima qualità, perché per Osorio e Ferdinando la ricerca delle migliori specialità è un chiodo fisso.
Chiudiamo questa degustazione in bellezza con due Collio Malvasia Istriana DOC, del 2011, 2012.
I vini sono tutti prodotti con uve Malvasia in purezza e, dopo la fermentazione in acciaio, sono maturate il 20% in barrique di primo passaggio, il 50% in barrique di secondo passaggio e il 30 % in acciaio, per 9 mesi.
Con il Maccagno beviamo il 2012 che si presenta nel bicchiere giallo solare con sfumature dorate.
Grande stoffa.
All’olfatto, pregevoli le noti di frutta matura, ananas e banana e aromi di fiori secchi che scorrono come in un fiume, sfociandoti in bocca e vibrando di densità e calore. Una nota di vaniglia sembra volersi appropriare di uno spazio più largo di quello che sarebbe giusto concedergli ma, alla fine, lo sfondo di legno si integra mirabilmente come una rapsodia, nella sinfonia di questa Malvasia.
L’annata 2011 è abbinata ad un Blue Stilton in cui il penicillium roqueforti ci ha dato dentro di brutto trasformando la pasta dura erborinata in un autentico capolavoro del gusto.
Anche la nostra Malvasia non è da meno, presentandosi di un colore ambrato brillante che evoca l’oro satinato dei fondi oro nelle tavole del Beato Angelico.
È al massimo dell’opulenza e dell’alcolicità con una complessità dirompente che culmina in una specie di viaggio sensoriale dentro un alveare con le sue fragranze di miele e cera d’api.
Un miracolo della natura che si compie ogni volta che si manifesta nel bicchiere, con un carattere che cresce euforicamente ad ogni assaggio, parandoti davanti un caleidoscopio di emozioni sorprendenti.
Siamo arrivati a metà pomeriggio con il senso più vero della condivisione a tavola e Angelo, adesso che non siamo più tesi nello sforzo degustativo, mi racconta della sua passione per i vini che è sempre stata parte integrante della sua vita.
Usciamo dalla locanda e rimaniamo qualche minuto ad osservare la strada attraverso la quale fu trasportato, verso Padova, Sant’Antonio, ormai morente.
Quel giorno (era il 13 giugno 1231) il Santo, che si trovava a Camposampiero, vicino a Padova, fu colto da grave malore.
Resosi conto che gli restava poco da vivere, chiese di poter ritornare a Padova.
Le sue condizioni erano talmente gravi che dovettero adagiarlo su un carro cui attaccarono una pariglia di buoi.
Così, seguendo l’antico percorso dell’Aurelia, giunse nei pressi dell’Arcella ormai moribondo.
Considerate le condizioni, un frate di nome Vinotto (che bel nome!), convinse il Santo e gli altri che lo accompagnavano a non proseguire oltre ma a sostare nel convento della Cella.
Così il carro deviò verso l’antico monastero. Circa un’ora dopo il Santo spirava all’interno di una piccola cella nel convento dei frati, adiacente al monastero delle clarisse.
Oggi i venti chilometri dell’antica strada romana sono chiamati la “via del Santo“.
Penso a quel 13 giugno, quando Antonio si è presentato al cospetto del suo Signore.
Mi piace immaginare che in quel momento sia partita, come per incanto, “Knockin’ On Heaven’s Door” e che quell’uomo santo, morto all’età di 36 anni per i troppi digiuni e le mortificazioni, dopo aver raccolto l’ardente invito di Bob di bussare alle porte del cielo, sia stato subito accolto con un buon bicchiere di Friulano o di Malvasia. Uno di quelli che hanno una luminosa e iridescente Stella sulla bottiglia.
Tenuta Stella
Via Sdencina, Dolegna del Collio (GO)