La cucina di sostanza.
Intervista a Herbert Hintner, Ristorante “Zur Rose”, San Michele Appiano

Io sono nato in un paese che si chiama Colle, in Val Pusteria, una valle di contadini a 1270 metri sul livello del mare da cui si possono godere meravigliosi panorami sul Gruppo delle Vedrette di Ries.
Dopo aver frequentato la scuola media dovevo decidere tra tre alternative: fare il prete, il sarto o il cuoco. A casa mia eravamo molto religiosi e i miei famigliari cercavano di orientare la mia scelta.
Ma ai preti era negato il piacere che ti può dare una donna ed io, fin dal periodo della pubertà, avevo deciso che non potevo rinunciare a questo piacere.
Il sarto, oltre a non essere un mestiere facile, non era adeguatamente riconosciuto e i compensi che se ne ricavavano erano bassi ed io, essendo il primogenito, ero predestinato a contribuire in modo cospicuo alle finanze famigliari.
Quindi decisi di intraprendere la carriera del cuoco proprio perché c’erano più margini di guadagno. Quello del guadagno facile è stato l’unico movente agli inizi; nessuna passione, nessun ardore.
Il mio primo impiego, nel 1972, fu all’Hotel Centrale, un albergo 4 stelle in Alta Val Badia.
Gli esordi non furono entusiasmanti perché la cucina era ripetitiva: bistecche alla pizzaiola, lasagne alla bolognese, cordon bleu e altri classici da preparare per una clientela internazionale che chiedeva sempre i soliti piatti.
Poi andai a lavorare nel ristorante dell’hotel Mangart di Caldaro e qui cominciarono i primi problemi. Anche se avevo capito che il mestiere di cuoco era nel mio DNA, ad un certo punto avevo quasi deciso di mollare perché dovevo cucinare meccanicamente ogni giorno quantità enormi di pietanze (a volte anche per 700 persone) ed era logorante. Me ne tornai a casa da mia mamma e le dissi che non volevo più fare il cuoco. Ma lei mi convinse a non lasciare perché, mentre oggi puoi cambiare bellamente un mestiere ogni sei mesi, a quei tempi, una volta scelta la tua strada non potevi più abbandonarla e quella doveva essere la tua identità.
Allora mi presentai presso il ristorante dell’Hotel Klosterbräu, un cinque stelle di Seefeld, nel Tirolo, dove cercavano uno chef de partie e, vedendomi motivato, mi assunsero nonostante avessi messo come condizione di potermi astenere dal lavoro il 24 di dicembre per poter festeggiare il Natale.
Non fu facile perché quel posto dava lavoro a 200 dipendenti e la titolare, al momento dell’assunzione, mi fece presente che se tutti avessero avanzato la stessa richiesta avrebbe dovuto chiudere il locale per le festività natalizie.
Ma la mia era una conditio sine qua non legata alla mia formazione religiosa. La spuntai ed entrai in una cucina con 22 cuochi.
Avevo 23 anni e, a stretto contatto con professionisti che finalmente facevano una cucina creativa, mi si aprì un mondo nuovo.
Ho avuto gli stimoli giusti per andare avanti e cominciare a fantasticare in un mondo che finalmente mi appariva fantastico.
Feci esperienze in altri ristoranti prestigiosi e nel 1982 mi sposai con Margot(*).
Mia moglie era figlia di Peter Rabensteiner e Rosa Stimpfl, proprietari del Ristorante Zur Rose di Appiano: 120 coperti al giorno per gente che voleva solo sfamarsi, non certo emozionarsi con un’esperienza culinaria.
Nel 1985, mio suocero Peter decide di cedere a me e Margot il ristorante e da qui inizia l’avventura. Il mio progetto, condiviso anche da mia moglie, fin dall’inizio, fu quello di introdurre nello Zur Rose creatività ed innovazione.
Non fu semplice perché l’investimento finanziario per l’avviamento della nuova attività, che comprendeva il totale rinnovo dei locali e delle cucine, fu molto cospicuo.
Inoltre dovevamo fare i conti anche con l’aumento dei costi del personale, che era assolutamente necessario per elevare di qualità la proposta gastronomica. Fu inevitabile anche l’aumento dei prezzi delle pietanze e la conseguente perdita di una ampia fetta di clientela che, per anni, era venuta lì per un piatto di patate al forno o un gulasch. Ma la strada ormai era tracciata e furono tre anni di sofferenza.
Non sapevo più dove andare a prendere i soldi per pagare il personale ma l’armonia forte creatasi con Margot, che nel frattempo aveva conseguito il diploma di sommelier, e le idee chiare che avevamo in testa, sono state le motivazioni più forti che ci hanno spinto ad andare avanti.
A volte le difficoltà che ti pone davanti la vita possono spezzare un rapporto sentimentale ma nel nostro caso lo hanno rinforzato ed io non finirò mai di ringraziare mia moglie per aver creduto in me.
Dopo tre anni di grandi sacrifici uscì un inserto allegato al giornale Dolomiten, con un articolo sulla gastronomico altoatesina, che parlava del nostro locale. Era il 1988 e da quell’articolo la strada fu tutta in discesa. Fu un boom enorme!
Oggi capisco quanto può essere potente la penna per promuovere o stroncare ma allora ancora non mi capacitavo che poche righe scritte su un giornale potessero pesare tanto.
Così riuscimmo a pagare i vecchi debiti ma dovemmo farne subito dei nuovi perché nel frattempo furono necessari ulteriori lavori di ammodernamento dei locali.
Ma il fatturato aumentava e non avevamo più paura di esporci con le banche. Fu il periodo in cui la mia creatività e innovazione si espressero in tutte le loro sfaccettature. Ho cominciato a dare la mia vera impronta a molti piatti della cucina altoatesina; per esempio, un piatto classico come i canederli agli spinaci, lo trasformavo in un sufflè di canederli. Oppure il Kalbskopf, la semplice testina di vitello, diventava “variazione di testina”, servita al naturale e con vari contrasti di acidità, consistenza e temperature.
Con Veronelli, Zur Rose fa il passo definitivo nel Gotha della gastronomia e, anche grazie al lavoro in cantina di Margot, otteniamo i riconoscimenti di famose guide nazionali ed internazionali tra cui la prima stella Michelin, nel 1995.
Ricordo ancora bene il giorno in cui è arrivato da noi l’ispettore della Michelin. Alla fine del pranzo mi ha detto: “Sono della Michelin. Ho mangiato bene!” ed io ero contento perché avevo soddisfatto un mio cliente. Allora non sapevo ancora cosa fosse la Michelin!
Me ne resi conto dopo aver ricevuto il telegramma in cui mi veniva comunicato ufficialmente il conferimento della stella.
Da quel giorno in poi fu un gran casino; il telefono non si fermava più e, in paese, tutti si congratulavano ed anche quelli che avevano sempre pensato che sarei andato in fallimento, mi dicevano: “Sono sempre stato certo del tuo grande talento!”.
Gault Millau mi assegna 2 cappelli da cuoco e un punteggio di 16/20, il Gambero Rosso un punteggio di 86/100, Veronelli 2 stelle, L’Espresso un punteggio di 16,50/20.
Non si era ancora calmata la buriana che ricevo una telefonata da Cortina. È Walter Bianconi, del celebre Ristorante “Tivoli”, che mi propone di partecipare al JRE, Jeunes Restaurateurs d’Europe. Ci vado e quello sarà il mio trampolino di lancio per comunicare la cucina, soprattutto quella fatta da giovani cuochi, sui quali dovremmo investire sempre di più se vogliamo veramente salvaguardare il nostro patrimonio gastronomico e promuovere talento e passione.
Quando Walter si dimette dalla carica di presidente del JRE per sopraggiunti limiti di età (45 anni, età massima prevista dallo statuto), vengo proposto per assumere la guida dell’organizzazione. Sulle prime non volevo accettare l’incarico perché io sono Altoatesino, montanaro coriaceo e, a quell’epoca, non parlavo ancora bene l’italiano ma Walter e i suoi collaboratori insistettero talmente tanto che dovetti accettare la nomina.
Alla convention tenutasi all’Hilton Cavalieri di Roma, 19 delegati regionali su 23, votarono il mio nome scegliendolo tra quelli di cuochi già grandi, del calibro di Pietro Leemann, Claudio Sadler, Gaetano Trovato di Arnolfo e molti altri.
Ho presieduto l’Associazione per 2 mandati (4 anni caduno) e mi sono battuto per diffondere la cultura gastronomica italiana. Negli otto anni di presidenza ho sempre cercato di inculcare nei giovani cuochi la convinzione di dover trasformare la loro professione in un baluardo di difesa delle tradizioni proiettato verso la ricerca e l’innovazione.
Oggi invece ho l’impressione che per i giovani cuochi la cucina sia solo business. Fanno quella che io chiamo cucina a goccia; nel piatto ti mettono un cubetto di carne e intorno gocce di diverse salse, curando in prevalenza la forma e relegando in secondo piano la sostanza.
Oppure preparano piatti sottovuoto, (sous vide) e ti propinano marmellate di carne!
Ma la cucina non può essere solo “stupore”. Un piatto deve avere una “profondità, comunicarti un messaggio, esprimere la stagione, la provenienza, rivelare il carattere e il gusto di chi l’ha preparato.

Herbert Hintner in cucina (foto tratta dal sito Zur Rose)

Fare il cuoco è la mia grande passione.
Credo che un cibo di buongusto è cultura e il buongusto è un atto del nostro giudizio che ci eleva nella percezione del piacere con benefiche ricadute anche sulla nostra salute.

 

 

(*) Margot Rabensteiner Hintner è la regina della cantina del Ristorante “Zur Rose” a San Michele Appiano che conduce insieme al marito Herbert. Grande esperta di vino, da oltre trent’anni, seleziona personalmente le etichette in carta allo “Zur Rose” e da’ consigli con grande maestria ai propri clienti. A 19 anni, unica donna del gruppo, frequenta le degustazioni organizzate dai vignaioli di Appiano
e ancora oggi continua ad affinare la propria conoscenza in campo enologico: “Non smetto mai di visitare cantine e cercare vini nuovi da proporre nel nostro ristorante”.