I grandi cru dell’Oltrepo Pavese
“Dell’Oltrepo Pavese, i nomi sono innumerevoli (…). I rossi, di regola, sono densi, spessi, spumosi, quasi dolci al primo assaggio, ma poi rivelatori di un fondo gradevolmente amarognolo che, sul posto, chiamano “ammandorlato” o “mandorlato”.
Uno di questi vini è il Barbacarlo, un altro è il Sangue di Giuda, un altro ancora è il Buttafuoco.”
Sono parole di Mario Soldati, in Vino al vino (Oscar Mondadori, pag. 120) che, meglio di ogni altre, sintetizzano con la consueta maestria, le caratteristiche precipue di un vino e che segnalano le eccellenze di un territorio ma invitano anche a “camminare le vigne” per coglierne a fondo l’anima.
Raccolgo con entusiasmo l’invito e mi appresto a “camminare” nelle vigne del Barbacarlo di Lino Maga, del Buttafuoco di Andrea Picchioni e Franco Pellegrini, del Roncolongo di Bisi e del Cavariola di Paolo Verdi, respirandone la storia intrisa nella terra, nell’aria e nelle radici di ceppi anche ultracentenari.
Sono tutti cru che danno e hanno dato vini prestigiosi, apprezzati anche da personaggi famosi come Gianni Brera e Gino Veronelli (Barbacarlo), Napoleone (Montebuono, da cui il Sangue di Giuda e, successivamente, il Cavariola), Carlo Porta (Buttafuoco), che ne hanno scritto nei loro libri o nelle loro memorie.
Il primo cru ad accogliermi è il Cavariola dell’Azienda Agricola Bruno Verdi di Canneto Pavese.
Paolo Verdi e sua moglie Enrica arrivano in vigna al mattimo presto con tanto di salame, miccone e boccione di OP Rosso Riserva Cavariola 2012, premiato con le 4 viti, massimo riconoscimento di VITAE, la Guida Vini 2017, dell’Associazione Italiana Sommelier.
La Vigna Cavariola con una pendenza del 35% è esposta ad Ovest, nella zona di Canneto Pavese. All’origine constava di 0,8 ettari, passati agli attuali 1,5.
È una vigna con filari a cavalcapoggio, mediante terrazzamenti in cui convivono diverse varietà tipiche dell’Oltrepo Pavese: Croatina, Ughetta di Canneto, Barbera e Uva Rara.
L’età delle viti varia dai 70/80 anni, fino alle più recenti piantate nel 2006.
La parte più vecchia ha circa 7/8000 ceppi per ettaro e rappresenta il classico uvaggio dell’Oltrepo Pavese, con tutti i vitigni mischiati mentre, nella parte più recente, la densità media d’impianto è di circa 6000 ceppi/ha. Proprio dalla viva voce di Paolo Verdi apprendiamo come nasce la vigna Cavariola:
“La vigna Cavariola, nei primi decenni del secolo scorso, appartiene ad Achille Bassani, detto Chilòt che, nelle sue peregrinazioni per motivi di lavoro (con la sua Citroen DS Squalo), va spesso in Francia, dove impara le tecniche di allevamento della vite e i sesti d’impianto, che poi replica in questa vigna e in altre di sua proprietà.
Il vino che ricava dalla Cavariola e che fa in una cantina a Casa Zoppini, lo chiama Sangue di Giuda ed è il primo viticultore a chiamare un vino con quel nome.
Del suo Sangue di Giuda, pretende un prezzo tre volte più alto della media dei vini in Oltrepo Pavese e, ciononostante, lo vende sempre tutto.
Le vigne, alla sua morte, passano a suo figlio Sergio che abita a Piacenza e viene a coltivarle, con sua moglie Graziana, solo il sabato e la domenica.
Per lui, più passa il tempo e più diventa problematico continuare ad occuparsi di un vigneto così distante dalla propria sede di residenza e, negli anni che vanno dal 1980 all’ ’84, decide di affidarne la gestione alla mia famiglia.
Dall’’84 fino al ’90, prendiamo in affitto la Cavariola e, nel ’90, anche grazie alle buone relazioni di mia madre con Graziana Bassani (che, dopo la morte del marito ne è l’unica proprietaria), la acquistiamo.
Nei terreni, che diventano di nostra proprietà, non è inclusa la cantina, dove sono conservate tutte le carte che raccontano la storia di questo cru e la memoria dell’origine del suo nome si perderà per sempre, cancellata da una diversa destinazione di quell’immobile.
Non sapremo mai perché si chiama Cavariola e possiamo solo immaginare che prenda il nome dai cavariò, che sono i tralcetti (detti anche vinchi) che servono per legare insieme i tralci o per fissare i tralci stessi ai fili di ferro.
Quando io e mio padre cominciamo a lavorare la vigna Cavariola, in paese, in tanti, specie quelli con più anni sulle spalle, dicono che ‘A la Cavariola as fà ‘l vin bòn’.
La saggezza dei vecchi non sbaglia mai e io ne avrò presto la conferma.
Nell’’84 mio padre c’era ancora ma sapevo che, di lì a poco, avrebbe continuato ad allevare in cielo le sue vigne ed io gli stavo il più vicino possibile, per rendergli meno gravosa la dipartita.
Da parte sua lui, che era consapevole del suo stato, cercava in tutti i modi e con tenacia di trasmettermi tutta la sua conoscenza.
Il 5/1/85, giorno della sua morte, io ho compiuto da poco i 23 anni (sono nato il 22 dicembre del ’62) e devo occuparmi da solo dell’Azienda.
Nel frattempo comincio a frequentare il Vinitaly (come semplice visitatore) e lì ho il mio primo incontro ravvicinato con le barrique e i vini rossi pregiati di zone come la Toscana e il Piemonte e inizio anche a domandarmi come mai in Oltrepo Pavese non ci sia nessuno che segua la strada che porti a fare un vino importante.
Di lì mi è venuto lo stimolo di provare a farne uno io con le uve di una vigna che era considerata molto prestigiosa.
Con la complicità di mio zio Giuseppe (che è uno zio acquisito ma cui sono affezionato più che a uno zio vero) decido di utilizzare le uve migliori della Cavariola, le stesse con cui facciamo il Sangue di Giuda o il Buttafuoco.
All’inizio sono solo due damigiane (di roba buona!) che non ha ancora un nome ma, dall ’85, si chiamerà Cavariola.
Lo metto in 3 botti usate da 700 litri, che mi dà Cassi, il bottaio di Montù Beccaria e, nell’’86, compro quattro barrique nuove.
Da allora, sempre barrique e travasi, lasciando a madre natura, che sa sempre come comportarsi, il compito di completarne la ricchezza”.
Attorno ad un tavolo allestito in mezzo alla vigna, degustiamo l’OP Rosso Riserva Cavariola 2012 e poi un inaspettato Cavariola 1985.
È di un colore brillante, mattonato.
Il naso è maturo, bene “arrivato”: sottobosco, humus, legna arsa, asfalto, tartufo, pellame, polvere di caffè, funghi.
All’assaggio l’ingresso è snello ma emerge subito una certa trama tannica, inaspettatamente dritta e asciugante.
Esco a malincuore da questa vigna perché vorrei stare ancora a sentire Paolo che mi parla con struggente passione del suo lavoro e di queste uve che sembrano gravide e quasi vogliose di dare alla luce quel nettare che portano in seno ma sono un pellegrino (da per agros) e devo continuare il pellegrinaggio per visitare altri santuari enoici.
Lascio la vigna assieme a Paolo, che decide di seguirmi nel percorso.
Arriviamo a Broni, nel piazzale delle Terme di Recoaro, dove parcheggiamo le macchine e da dove iniziamo la salita (che definirla ripida è un eufemismo) fino ad arrivare in mezzo ai vigneti del Barbacarlo, dell’Azienda Agricola Barbacarlo – comm. Lino Maga di Maga Giuseppe.
Il sole è già alto sulle nostre teste e, alla base del pendio dove svettano le pregiate uve di Croatina, Ughetta e Uva Ra
ra, c’è Giuseppe Maga ad aspettarci.
Giuseppe, assieme a suo padre Lino è proprietario di queste terre e proprio lui, che vuole che lo chiamiamo “Giuse”, ci conduce per mano per farci affrontare (e vincere) pendenze superiori all’80% e portarci sul punto più alto della collina lasciata in eredità da un avo di nome Carlo ai suoi nipoti.
Ma è suo padre Lino a raccontarci la storia del Barbacarlo:
“La mia famiglia era proprietaria fin dal Settecento dell’intera Valle Maga, che comprendeva i colli del Ronchetto con i vigneti del fondo Ronco e del Montebuono, con i vigneti dell’omonimo fondo da cui si ricava appunto il Vigna Montebuono, che veniva anche chiamato Monte Napoleone, dopo che il grande imperatore bevve quel vino per ristorarsi dalle fatiche conseguenti la battaglia di Marengo.
C’è un atto notarile del 1785, che fa risalire la proprietà di questi vigneti della collina Porrei alla famiglia Maga.
Contardo era il padre di mio nonno che sposò una Nascimbene ed ebbe tre figli: Angelo, Carlo e appunto, mio nonno Luigi. Nel 1921 grazie a Contardo la produzione comincia ad acquisire stabilità. Il padre della mia bisnonna, l’ingegner Luigi Nascimbene, che collaborò con Agostino Depretis e Garibaldi per l’Unità d’Italia, fondò il collegio Nascimbene a Pavia e lasciò per testamento che per sette generazioni i Maga avrebbero potuto frequentarlo e studiarvi gratuitamente purché non fossero bocciati un anno. Pochi di noi hanno sfruttato questa opportunità, me compreso, perché eravamo tutti impegnati in vigna.
Contardo era il mio arcibisnonno. Anche il padre di Contardo si chiamava Carlo e morì nel 1897.
Carlo morì all’età di 85 anni e, prima di morire, donò ai suoi nipoti la collina Porrei, che vuol dire “luogo di casa”.
Su quella collina c’erano tutti i vigneti dei Maga, volti a sud-ovest, il che permetteva di prendere il sole tutto il giorno, o meglio di guardare il sole fino al tramonto. Erano e sono quelli con le migliori uve di tutta Broni. Certe annate, a gennaio, sotto queste vigne si stende un tappeto di viole e d’estate, mentre divampa la calura su tutte le altre colline bronesi, qui capita che di notte la temperatura
scenda fino a pochi gradi sopra lo zero. Proprio queste escursioni termiche favoriscono la maturazione di uve eccezionali con un elevato tenore alcolico.
I nipoti, frazionando la collina, la chiamarono “collina di zio Carlo”, perché quella collina era dello zio, e siccome zio in dialetto si diceva barba, diventò la collina di Barba Carlo”.
Dalla collina del Barbacarlo la vista è incomparabile.
Sullo sfondo a destra vediamo la chiesetta di San Contardo* (1216 Ferrara- 1249 Broni), patrono di Broni.
In mezzo alle sue vigne, il Giuse stappa alcune bottiglie di Barbacarlo dell’annata 2007 e, prima di versare il vino nel bicchiere, lo sbocca versandone un po’ in terra: “Mio padre dice che è un gesto dovuto: si restituisce alla terra una parte di quello che dà ”. Mentre beviamo il vino preferito da gente di vite e di vita come Gioàn Brera, Gino Veronelli e Mario Soldati, abbiamo il cuore gonfio di mestizia nel vedere gli antichi filari devastati dai cinghiali che sono venuti fin quassù a mangiare l’uva più buona di Broni recando danni cospicui ad una produzione che, seguendo solo i ritmi della natura, senza forzarli, è già di per sé molto limitata.
A mezzogiorno ormai passato, la fame comincia a farsi sentire anche per le ardue scarpinate che Paolo ed io già abbiamo nelle gambe ed è venuto il momento di raggiungere Canneto Pavese, località la Solinga, dove Franco Pellegrini, sua moglie Annamaria e i figli Davide e Rita ci aspettano per il pranzo.
Facciamo un pasto frugale con un’insalata dell’orto e una fettunta conl’olio Evo degli ulivi di Franco e riprendiamo il nostro “cammino” attraverso le vigne del Buttafuoco. C’è un cru che si dividono Franco Pellegrini e Andrea Picchioni.
Nell’atto di provenienza (Instromento, del 2 febbraio 1861) sottoscritto al momento dell’acquisto di questo appezzamento, c’è proprio scritto vigna Buttafuoco.
Alla Solinga, intorno a vigneti con pendenze in alcuni tratti proibitive, ci sono prati e boschi: un territorio d’eccellenza che garantisce alle viti di godere di un’esposizione giornaliera molto intensa che volge a mezzogiorno e di correnti durante le ore notturne per consentire una maturazione completa e graduale dei grappoli.
Il Buttafuoco nasce dalla fatica dell’uomo, come tutti i vini degni di questo nome e, mantenendo in fondo all’anima il suo fascino primordiale, è riuscito ad evolversi fino a diventare un vino che può essere paragonato, per molti versi, ai grandi vini bordolesi.
La zona di produzione è lo sperone di Stradella, un crinale spartiacque tra i torrenti Scuropasso e Versa, che si trova nella prima fascia collinare dell’Oltrepo Pavese.
È una sottozona in grado di dare una base enologica con peculiarità uniche, specie nella zona di Canneto Pavese e, marcatamente, alla Solinga dove i terreni hanno una tessitura di ghiaia, sabbia e argilla e dove i vini sono caratterizzati da una spiccata nota di balsamico.
Il nome di Canneto Pavese è inseparabilmente legato al vino (e a questo vino: il Buttafuoco, nel ‘900 è prodotto solo qui) in quanto, fino a pochi anni fa, era il Comune italiano con la maggior superficie vitata in rapporto alla sua area territoriale.
Franco Pellegrini, dell’Azienda Agricola Pellegrini Franco, ci mostra la sua parte di vigna che coltiva con il massimo rispetto per la terra e l’ambiente e, con un moto di orgoglio che ti conquista, ci dice: “Ho fondato l’Azienda Pellegrini Franco nei primi anni ’90 e la conduco, coadiuvato da mia moglie Annamaria, sotto lo sguardo attento dei nostri figli Davide e Rita. L’Azienda ha, attualmente, una superfice di 6 ettari. Tutti i terreni sono di proprietà ed interamente utilizzati per la produzione di uve, da cui ricavo circa 40.000 bottiglie all’anno. La lavorazione della vigna è ancora manuale, nel senso tradizionale del termine (solo nella fase di pigiatura interviene la meccanizzazione): la raccolta è fatta interamente a mano, così come la potatura, della quale mi occupo personalmente. La caratteristica più importante del nostro terreno è la sua particolare collocazione. Si tratta infatti di un terreno di media collina (tra i 250 e i 300 metri di altitudine), in posizione molto ripida e soleggiata. Queste ultime due caratteristiche garantiscono un’escursione termica ottimale e un’eccellente maturazione delle uve”.
Nei suoi Buttafuoco viene fuori la genuinità che sottende tutto il ciclo produttivo.
Il primo che assaggiamo è il Bricco della Solinga 2013 (Barbera 60%, Croatina 30%, Uva Rara 5% e Vespolina).
L’affinamento avviene in botti di rovere per circa un anno.
È un vino di 14,5 gradi, con sentori minerali e sapidi che gli vengono dalla matrice di marina e arenaria che l’ha generato.
Poi passiamo all’altro Buttafuoco DOC, il Falco della Solinga del 2012 (Barbera 60%, Croatina 30%, Uva Rara 5% e Vespolina) che si manifesta con uno spiccato profumo di piccoli frutti sotto spirito, note di pellame e pasticceria.
In bocca è pieno, caldo, potente.
Franco è grande come i suoi vini e, nonostante le avversità che la vita gli ha posto davanti, non ha mai smesso di sorridere e a credere nel suo lavoro e, mentre ci saluta (sempre col sorriso sulle labbra) con un “evviva, evviva!” e un “mai pagùra”, ci chiediamo quante e quali possibilità in più potrebbe avere l’Oltrepo Pavese se ci fossero tanti altri Pellegrini come lui.Ma almeno un altro come lui c’è e ci aspetta in mezzo alle sue vigne.
E’ Andrea Picchioni.
L’Azienda Agricola Picchioni Andrea è a Canneto Pavese, in Frazione Campo Noce.
Andrea ha un viso gioviale che un po’ contrasta con la sua stazza fisica che, però, non ti mette soggezione grazie alla sua affabilità, mitezza e sensibilità.
Potresti quasi definirlo un tipo timido in quanto, in mezzo alla gente, non parla volentieri ma solo perché preferisce ascoltare. Quando è in familiarità con amici o persone con cui è in confidenza invece diventa loquace e comunicativo e ti contagia con la sua umanità e la sua energia di contadino verace. Porta quasi sempre una giacca di velluto, sopra ad una camicia di flanella con il colletto sbottonato ed è uno che si è fatto da solo, con le idee chiare già all’età di 21 anni quando, con tanta passione e curiosità, inizia la sua carriera.
Gli fanno da spalla suo papà Antonio e sua mamma Rosa e, successivamente, Silvia sua moglie, che lo sostiene in tutte le sue decisioni.
Il “Picchio” crede fermamente nel Buttafuoco, quello prodotto con uve autoctone e con un inconfondibile e precisa identità territoriale che, secondo lui, andrebbe ulteriormente rafforzata, escludendo dalla DOC la versione frizzante che tende a sminuire le qualità di questo grande vino.
Alla Solinga, le vigne di Andrea Picchioni, raggiungono la loro massima estensione e hanno una base ampelografica del tutto simile al Bordeaux con in più il vantaggio che qui ci sono i pendii e l’inclinazione mentre là la terra è prevalentemente pianeggiante.
Il Buttafuoco, è un uvaggio di uve, Croatina, Barbera su tutte e poi Ughetta di Canneto e Uva Rara, come nel bordolese, dove mescolano insieme i due vitigni primari, Cabernet Sauvignon e Merlot e vitigni minori come il Malbec o il Petit Verdot.
Nel Buttafuoco, la Croatina è quella che marca di più perché è un’uva estremamente malleabile che permette di fare vini freschi e molto fruttati o vini con macerazioni più lunghe o estrazioni maggiori di tannini e maggiori quantità di alcol.
Ne deriva una piacevole rotondità e la tipica cadenza olfattiva fruttata vertente su profumi vegetali che sono totalmente diversi dai profumi iniziali (ammarescati).
Nella zona delle Graves, del Médoc, di Saint Emilion o di altre zone del Bordeaux, sono il Cabernet Sauvignon e il Merlot a marcare molto i vini e proprio per questo vengono “tagliati” con il Malbec e il Petit Verdot, perché sono più tipici.
Là, si è costruita nei secoli una maggiore omogeneità nelle connotazioni di base proprio per fare un mercato che dall’estuario della Gironda, con le navi, spostava i vini nel mondo, creando una tipologia di vino che corrisponde molto bene al gusto internazionale che, pur strutturalmente diverso dal Buttafuoco, (perché parte dai sentori olfattivi vegetali che vanno in evoluzione nel legno) è organoletticamente simile.
Andrea Picchioni, i suoi Buttafuoco referenziati come “Bricco Riva Bianca”(raffinato ed evoluto) e “Cerasa” (quello d’annata, fragrante, morbido, immediato), li fa nella zona più vocata per il Buttafuoco, in un’areale produttivo che può essere identificato come un unico cru.
Poco più di otto ettari di vigna su un versante collinare, che volge a mezzogiorno, con pendenze in alcuni tratti proibitive.
Proprio dalle vigne più scoscese raccoglie a mano quelle uve che, nella loro genetica, hanno la vocazione all’invecchiamento e danno ai vini un carattere agréable, come direbbero i Francesi ovvero piacevole con tutte le declinazioni del piacere, come preferiamo dire noi Italiani.
La storia della sua Azienda inizia nel 1988 con il recupero di vigneti abbandonati sulle colline di Canneto Pavese.
Nel 1995 comincia la collaborazione con l’enologo Giuseppe Zatti da Castana, detto Beppe, (che vanta cooperazioni anche nella zona del Gattinara, del Barolo, dei Ronchi Varesini e in Toscana, a Bolgheri), la quale si rivelerà preziosa nell’elevazione della qualità dei vini.
Andrea coltiva la terra, alleva le viti e produce il suo vino nel massimo rispetto per l’ambiente.
Per irrigare le sue vigne usa solo acqua di pozzi di proprietà, concima utilizzando solo concimi organici e ridistribuendo le vinacce, sfalcia l’erba lasciandola sul terreno e non esegue lavori di movimentazione per evitare erosioni.
Una parte della superficie aziendale è mantenuta a bosco e l’Azienda Agricola Picchioni Andrea è certificata bio ma la sua non è stata una “conversione”, perché l’amore e il rispetto per la terra che lui ha, sono innate e non hanno bisogno di certificazioni.
Anche Andrea, mostrandoci e parlandoci delle sue viti, riesce a trasmetterci la sua sapienza ma soprattutto la passione e l’amore che ha dentro: ha sempre voluto manifestare l’appartenenza alle proprie origini attraverso il vigore, l’efficacia e l’eloquenza dei suoi due Buttafuoco e lo fa con rigore enologico, la coesione e il senso di squadra con altri vignaioli del territorio.
Uno di questi è Lino Maga che, prima ancora di essere un vignaiolo, è un contadino che “serve” la sua terra e che ha insegnato a gente disposta ad ascoltarlo, come Andrea, come si fa a trasformare un frutto nella bevanda più buona del mondo, rispettando il territorio che lo genera.
Proprio con Lino Maga, Andrea è stato protagonista, il 10 giugno 2015, presso l’Hotel Due Torri a Verona, di una memorabile verticale di Barbacarlo e di Buttafuoco Bricco Riva Bianca, organizzata dalla Fondazione Italiana Sommelier Veneto.
Mentre lo osserviamo intento ad aprire il magnum di Bricco Riva Bianca (proveniente dall’omonimo vigneto) del 2012, pregustiamo già il piacere che ne avremo di lì a poco, perché è risaputo che un vino già di per sé buono, nel boccione lo è ancora di più.
Questo Buttafuoco è stato premiato, in varie annate, come “Vino dell’Eccellenza”, da L’Espresso – I Vini d’Italia (l’ultima annata, premiata nel 2016, è il 2011).
Il colore è scuro ma di una lucentezza straordinaria e al naso denota subito una grande complessità di note fruttate che volgono al rustico, al selvatico, alla terra, al chiodo di garofano, al pepe e al pimento piccante.
È un vino che sa di vino, come direbbe Lino Maga e a cui, ogni ulteriore descrizione risulterebbe superflua.
Quindi lo beviamo, apprezzando subito l’affinamento che si rivela molto equilibrato nell’arricchimento di note vanigliate e tostate.
È intenso e di razza potente, un purosangue con degli zoccoli tufacei che affondano nel terreno per estrarne la sapidità e la mineralità, figlie legittime del cru da cui proviene.
Per non farci mancare niente assaggiamo anche il Buttafuoco Cerasa.
Sull’etichetta c’è scritto Luogo della Cerasa 2015.
Ha un carattere molto deciso e in bocca è quasi carnoso ma morbido, con una spiccata rotondità e persistenza.
Un’altra volta, a malincuore, Paolo ed io dobbiamo lasciare un grande luogo e una grande compagnia per trasferirci in località Cascina San Michele, a San Damiano al Colle, sede dell’ultima stazione della nostra Via Vinis: il Roncolongo, dell’Azienda Agricola Bisi.
Ora, la Vigna storica del Roncolongo che si trovava ad un’altitudine di 180 mt. s.l.m., su terreni calcarei, non esiste più e la Barbera 100% utilizzata per questo vino straordinario deriva da un recente impianto posto sulle pendici adiacenti la cantina dell’Azienda Agricola.
Al Roncolongo, una Vigna nel Comune di Montù Beccaria, la famiglia di Claudio ed Emilio Bisi, da tre generazioni proprietaria del podere, ha lasciato aperto il grande libro della storia.
In mezzo alle uve di Barbera del Roncolongo possiamo godere di uno spettacolo della natura straordinario, che prosegue quando ci sediamo ad un tavolo allestito sotto il portico aziendale, con bottiglie di Roncolongo di varie annate.
Tutte di un colore rosso rubino carico con profumi intensi e complessi, sentori di frutta rossa con note aromatiche di tabacco e liquirizia.
Il Roncolongo non subisce alcuna filtrazione o chiarifica.
E’ un vino di potente struttura che lascia la bocca ampia e una lunga persistenza aromatica e che non smetteresti di bere anche dopo averne bevuti altri, altrettanto grandi. Ma sono ormai le 8 e 30 di sera e il giorno è finito.
Mentre torniamo alle nostre case, diamo un ultimo sguardo alle colline che si estendono sotto i nostri occhi, rese ancor più incantevoli dalla coltre della sera e pensiamo che, in fondo, forse è un bene che l’Unesco non si sia accorto di quanto sia bella questa terra e non l’abbia ancora inserita nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
*Contardo, nacque a Ferrara nel 1216, primogenito dei principi d’Este, signori della Città.Già nei primi anni della sua giovinezza sentì la voce di Dio che con forza lo chiamava ad abbandonare le ricchezze terrene. Lasciata Ferrara con alcuni compagni, si mise in viaggio verso il Santuario di San Giacomo di Compostela ma, giunto a Broni, cadde ammalato e morì il 16 Aprile 1249.Al momento della sua morte alcuni prodigi rivelarono la santità dello sconosciuto pellegrino: le campane si misero a suonare da sole e delle fiammelle si accesero accanto al corpo), suscitando la venerazione dei Bronesi che tumularono il santo corpo con tutti gli onori, nella chiesa parrocchiale di San Pietro, già Collegiata, poi eretta in Basilica Minore.
Nel 2016, è stata celebrata la festa per gli 800 anni dalla sua nascita.
Azienda Agricola Bruno Verdi di Verdi Paolo
Via Vergomberra, 5 Canneto Pavese (PV)
BARBACARLO – Azienda Agricola Barbacarlo di Lino Maga
Via Mazzini, 50 Broni (PV)
Azienda Agricola Pellegrini Franco
Strada Vicinale Solinga, 15 Stradella (PV)
Azienda Agricola Picchioni Andrea
Frazione Campo Noce, 4 Canneto Pavese (PV)
Azienda Agricola Bisi
Località Cascina San Michele, San Damiano al Colle (PV)