La cucina d’ “ispirazione”: Franco Martini e la Locanda “Leon d’Oro” di Pralboino
Franco Martini patron del Leon d’Oro e lo chef Alfonso Pepe
Tutto inizia ai primi anni del secolo scorso quando il nonno materno di Franco Martini compera una locanda con stallo, del ‘700, che si chiama “Re Alboino”.
La conduce da solo, per una trentina d’anni poi, a metà degli anni ’40, insieme ai suoi figli tra cui la mamma di Franco, Annamaria, detta affettuosamente Mari, che nasce nel ’28.
Già negli anni 1929 e ’30 il Touring Club Italiano parla di questa locanda segnalando anche la presenza di cinque graziose camere destinate ad alloggio, che sono sempre molto richieste.
Intorno agli anni ’40, Annamaria comincia a muovere i primi passi in cucina.
Lo zio di Franco, Domenico, detto Murèl, invece si occupa della sala e della mescita ai tavoli di un’osteria dove si va a fare due chiacchiere, bere un bicchiere e giocare a carte.
In questo posto che, per un retaggio della dominazione veneta, prende il nome di “Leon d’Oro”, c’è il vero senso della socializzazione, che si è ormai perso ai giorni nostri.
Nel frattempo Annamaria conosce Erminio, il padre di Franco.
Si sposano e vanno a vivere lontano dalla locanda e dalla cucina, cui si era affezionata.
Nel ‘67 Franco ha16 anni e frequenta le scuole a Brescia dove abita e i suoi genitori decidono che è sufficientemente grande per incominciare a guadagnare qualche soldo ma soprattutto a farsi le ossa in un campo, quello della ristorazione, che è parte della storia di famiglia.
Una zia di Franco, che abita a Santa Margherita Ligure, gli trova un impiego da lavapiatti all’Hotel Regina Elena, un quattro stelle lusso, affacciato sulla strada che va verso Portofino.
“Arrivo nel Tigullio con la determinazione di farmi rispettare anche in un ruolo non molto edificante come quello dello sguattero ma, inaspettatamente, faccio subito carriera perché lì all’hotel hanno bisogno di uno come me che sappia un po’ di inglese e francese anche solo scolastico, da inserire al ricevimento clienti. Dopo qualche giorno vengo affiancato al sommelier in sala e due settimane più tardi sono promosso commis. Faccio servizio ai tavoli ma non mi limito solamente a portare i piatti. Mi soffermo anche a parlare con gli ospiti, cosa che a quei tempi non è tanto usuale e molti di loro, specie quelli che vengono frequentemente, vogliono che li serva sempre io proprio perché apprezzano il mio modo di fare. Uno dei miei estimatori più accesi è Victor de Sabata, direttore d’orchestra amico di Toscanini che, mentre aspetta di essere servito, legge sempre un libro. Non è passato un mese dal mio arrivo che il demi chef si dimette dal suo incarico per contrasti con lo chef ed io entro in cucina al suo posto. Ma non è finita perché il dottor Giulio, proprietario del Regina, mi propone di andare in Inghilterra a lavorare nella stagione invernale in un altro suo hotel, così da perfezionarmi nella lingua inglese ed essere maggiormente preparato per la stagione successiva. Sono partito con un’offerta di impiego a 40 mila lire mensili e alla fine me ne danno 120 mila cui vanno aggiunte altre circa 300 mila lire di mance. Ne ho a sufficienza per andare a divertirmi, a fine turno, al Barracuda, al Covo, al Carillon o al Saltincielo e avanzarne ancora da mandare a casa. A Santa Margherita, Paraggi, San Michele di Pagana e Portofino trascorro il periodo più bello della mia vita e Santa Margherita, in special modo, mi rimane nel cuore tanto che, nel ’92, ci ritorno per gestire il ristorante dell’Hotel Laurin, ma questa è un’altra storia! La proposta di andare a farmi un’esperienza all’estero mi solletica molto ma non riesco a concretizzarla perché mio zio Murèl si ammala e nello stesso tempo mio padre viene licenziato dalla ditta in cui lavora. I miei genitori decidono allora di affiancare mia zia Ida, sulla quale era venuto a gravare tutto il peso del ‘Leon d’Oro’ e, nel ’67, lo rilevano. Io inizio a collaborare con loro a tempo pieno e i primi passi, in quella che io adesso chiamo ‘Osteria di Classe’, li ho mossi all’età di 16 anni”.
Da allora ne ha fatta di strada, nel senso che ne ha percorsa tanta, senza mai fermarsi.
Il lavoro dell’oste è un lavoro da sognatori perché quello che s’instaura con il cliente è un rapporto speciale basato su aspettative reciproche e fiducia da guadagnarsi e riguadagnarsi.
“Inoltre è una professione che non ti consente mai di sgarrare, devi sempre stare attento a come ‘muoverti’ e a come indirizzare le tue decisioni. Il mio amico Antonio Santini del ‘Pescatore’, di Runate, che dista una decina di chilometri da Pralboino, agli inizi della carriera cucinava solo il luccio e altri pesci di fiume e molti sceglievano il suo ristorante anche per organizzare feste di matrimonio. Una sera che ero là da lui, suo padre mi disse che Antonio era impazzito perché non voleva più fare i matrimoni nel loro locale. Invece è stata la sua fortuna perché proprio da quella decisione è incominciato il rinnovamento che l’ha consacrato. Un percorso analogo, fatto di drastiche ma rigorose decisioni, l’hanno fatto anche Franco Colombani del ‘Sole’, di Maleo e Peppino Cantarelli (il mito della ‘Bassa’) di Samboneto. Gente che si è ‘mossa’ bene e ha saputo rinnovarsi recuperando le ricette della tradizione, valorizzare la cucina e i prodotti del territorio”.
Franco è cresciuto con loro e da loro ha cercato di attingere tutto quel che poteva in quanto a estrosità e genialità.
Ha imparato che bisogna rinnovare e che per rinnovare bene, bisogna conoscere.
I riconoscimenti arrivano se oltre l’impegno e la passione profuse nel tuo lavoro hai anche la capacità di fare le scelte giuste, di valorizzare quello in cui credi e di trasmetterlo efficacemente agli altri.
Questo vale ancora di più se ti trovi in un posto come Pralboino, distante dai grandi centri metropolitani.
Enzo Vizzari, direttore delle Guide dell’Espresso, che ha avuto anche un incarico di direttore dell’Ufficio Stampa dell’Associazione Industriali di Brescia, è stato il primo a scrivere un articolo sul “Leon d’Oro”.
Era il 1982 e il titolo faceva la rima: “Ostriche e cotechino a Pralboino”.
Vizzari si chiedeva: “Vale la pena venire fin qui, specie d’inverno con le nebbie che spesso avvolgono con la loro spessa coltre la bassa? Si! Qui c’è un cotechino di testa fantastico, di quelli che mangi col cucchiaio. Ma se il cotechino non ti piace, ti puoi consolare con le ostriche Belon che arrivano fresche due volte la settimana”.
Al “Leon d’Oro” sono stati tra i primi a proporre specialità gastronomiche di alto livello come il “pré-salé“, l’agnello che vive in Bretagna sui pascoli bagnati dall’Oceano e si alimenta di erbe aromatiche rese sapide dalla salinità portata dal vento o i primi Angus bradi scozzesi e, anche, i capretti francesi.
Il tenere sempre alta la barra su prodotti d’indiscussa qualità ha portato il Leon d’Oro a riconoscimenti sempre maggiori fino alla stella Michelin, conservata ininterrottamente dal 1995 anche se il salto qualitativo è coinciso con una inevitabile perdita di quella frangia di clientela affezionata ma che doveva fare i conti con un’altrettanto inevitabile adeguamento dei prezzi.
“Un mio carissimo amico laureato in medicina mi dice sempre che se non avesse fatto il medico avrebbe fatto l’oste. Fare l’oste è una professione difficile: è una brutta bestia che devi sempre tenere al guinzaglio senza mai mollare. Basta una piccola disattenzione e ti scappa di mano senza più riuscire a riprenderla”.
La cucina del Leon d’Oro è oggi in mano ad Alfonso Pepe un campano, di Salerno.
Quando arriva qui, nel 2001, all’età di 23 anni, ha già fatto la scuola di Gianfranco Vissani, Bruno Barbieri e Angelo Troiani ma impara subito dalla Mari i fondamentali della cucina di tradizione e comincia a fare le lumache e il capretto alla bresciana meglio dei bresciani.
La sua non è una cucina di provocazione come oggi si vede spesso rappresentata un po’ dappertutto ma di ispirazione basata sul recupero dei valori più puri e più veri, consapevole del fatto che i tempi cambiano con un ritmo sempre più accelerato.
Ha una tenacia inesauribile nella ricerca di miglioramento delle sue proposte culinarie tesa a trasformare l’esperienza del mangiare in un’arte in cui siano coinvolti tutti i sensi.
Sul sito Locandaleondoro.com ci sono le foto di numerose preparazioni di Alfonso e i prezzi dei menu, in linea con quelli di ristoranti stellati: i due menu degustazione ARIA E ACQUA (pesce) e TERRA E FUOCO (carne), costano 105 euro.
La Locanda Leon d’Oro si trova in Via Veronica Gambara a Pralboino (BS).