Il Forteto della Luja; il ritmo della natura e i vini buoni come una volta
La strada che da Acqui Terme va verso il confine tra la Langa Astigiana e la Langa Albese, attraversa borghi suggestivi che hanno conservato intatte le loro radici storiche.
Dopo Monastero Bormida, con l’abbazia benedettina dell’anno 1000 e Bubbio, col suo castello, di origini ancora più antiche, la strada improvvisamente diventa una serpentina che s’intensifica nei pressi di Loazzolo.
Siamo a circa 600 metri di altitudine e il paesaggio è tra i più spettacolari che possa offrire un areale straordinariamente vocato alla viticoltura per caratteristiche climatiche, esposizione e composizione dei terreni.
Durante le giornate terse puoi vedere il massiccio del Rosa, la distesa delle vigne tra bassa e alta Langa, il Monferrato, i rilievi dell’Appennino ligure e le torri medievali di vedetta, che svettano sui bricchi più elevati.
Qui, dove le Langhe incontrano il Monferrato (Loazzolo è l’ultimo paese della Langa Astigiana e Canelli il primo del Monferrato), c’è la più estesa piccola proprietà contadina del mondo.
Anche in Borgogna gran parte dei vigneti hanno piccole dimensioni ma si tratta di un’unica contea mentre il territorio tra Langhe, Roero e Monferrato consta di una ventina di vallate.
Un territorio iscritto alla Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO, dal 22 giugno 2014, per la straordinarietà del paesaggio agricolo a mosaico.
In queste zone del Piemonte le proprietà agricole vitivinicole sono state molto spezzettate perché hanno dovuto subire la dominazione dei Savoia che, nella prima metà dell’800, erano impegnati nella guerra d’Indipendenza e, per finanziarla, hanno tassato tutte le proprietà nobiliari. I nobili per pagare meno tasse decisero di lottizzare e vendere a pezzetti i terreni ai mezzadri. Tutte particelle molto piccole perché i contadini non avevano mezzi per acquistare grandi appezzamenti.
Da queste parti la biodiversità ha raggiunto un equilibrio perfetto: accanto alla vite c’è il pascolo, il prato, il bosco.
I langhetti il bosco lo chiamano forteto e, proprio a Loazzolo, c’è un forteto di roverelle, ornielli, pini silvestri e pioppi che prende il nome dal corso d’acqua che lo attraversa, il rio della Luja, un affluente del Bormida di Millesimo: è il forteto della Luja.
Forteto della Luja è diventato anche il nome di una cantina di viticoltori che da numerose generazioni (l’accorpamento aziendale è documentato dal 1826) hanno qui le proprie vigne.
Faceva parte dei possedimenti dei Gancia (molte tenute come questa, negli anni sono state vendute dai Gancia ai loro mezzadri) e, il colore delle facciate degli immobili è il giallo, lo stesso giallo del castello Gancia, sopra Canelli.
Oggi ha 11 ettari vitati e a condurla è Giovanni (detto Gianni) Scaglione, con la moglie Cristina Sala che si occupa dell’accoglienza e del marketing.
Le loro due figlie, Lucia e Linda, sono ancora piccole ma Gianni non perde mai l’occasione di portarle nella vigna quasi fosse una forma di svezzamento ambientale.
Giovanni Scaglione nella sua cantina
Gianni è nato l’8 maggio 1965, all’ospedale di Alba ma rivendica le sue origini a Santo Stefano Belbo, che dista una decina di chilometri da Loazzolo e dove ancora ci sono le proprietà di famiglia.
Accanto alla loro abitazione c’è la casa di un loro parente, Pinolo Scaglione, di professione falegname, il Nuto di La luna e i falò di Cesare Pavese.
Gianni ha fatto la scuola agraria a Torino e quella enologica sul campo, con suo padre Giancarlo, classe ’41 (con un curriculum di tutto rispetto: enologo, laureato in biologia, docente alla Scuola Enologica di Alba negli anni ’70, biologo presso la Perlier Kelemata di Torino e direttore tecnico di produzione per la F.lli Gancia di Canelli) ma gli studi non gli hanno tolto l’impostazione e la visione del contadino: non solo l’uva e il vino ma l’azienda agricola nel suo complesso.
Un’azienda che ha ottenuto la certificazione ICEA (Istituto Certificazione Etica e Ambientale) per il biologico nel 2007, lo stesso anno nel quale il territorio in cui insiste è stato dichiarato oasi del WWF.
Gianni è molto orgoglioso di questo riconoscimento: “Ai responsabili del WWF, che sono venuti da me, ho chiesto cosa dovevo fare, come avrei dovuto comportarmi e mi hanno risposto che non dovevo fare altro che quello che avevo fatto fino a quel momento”.
A volte più che la coscienza è la necessità a determinare le scelte.
Quando hai una vigna molto ripida, se la diserbi, il primo forte temporale ti porta giù la terra e quindi, per evitare l’erosione devi avere un inerbimento permanente.
Inoltre, quando devi tagliare l’erba, puoi farlo solo a mano, con un decespugliatore, perché su certe pendenze non puoi usare né trattori né cingoli: “Dovendo tagliare l’erba a mano, aspetto che cresca il più possibile, così da fare uno o al massimo due tagli. La tagliamo dopo la fioritura perché poi cresce poco, in quanto ha già compiuto il suo ciclo biologico e, l’anno successivo, abbiamo molti fiori perché la pianta ha avuto il tempo di produrre la semenza”.
Se non utilizzi diserbanti o disseccanti, prima di tutto hai rispetto della terra e, se la rispetti, lei ti ricompensa: “Le mie vigne sono parte di un ambiente naturale in cui erbe, insetti e animali sono elementi costitutivi necessari”.
Ci sono più di cento varietà diverse di erbe selvatiche: dalla rucola al timo, dal cardo mariano alla malva, dalla melissa alla menta, all’ortica, alla piantaggine, alla mentuccia ma anche orchidee selvatiche che crescono in simbiosi con funghi e miceni e insetti impollinatori e farfalle, molto sensibili ai trattamenti, che qui hanno trovato il loro habitat ideale.
Alcune di queste farfalle sono di specie rare e protette da una direttiva europea che tutela la conservazione degli habitat naturali.
La particella più prestigiosa del Forteto della Luja è Piasa Rischei (toponimo), una vigna a giropoggio piantata dal bisnonno paterno di Gianni, nel ’37, con allevamento a guyot basso su terreno calcareo-marnoso.
Giovanni che indica la vigna Piasa Rischei
La giacitura collinare ha una pendenza media superiore al 50%, ad un’altitudine che va dai 450 ai 500 metri s.l.m..
Esposta a Sud-Ovest è un surì del pomeriggio: comincia a prendere il sole dal mattino verso le dieci e fino al tramonto.
Sotto c’è una vallata profonda, con una forte escursione termica: sale aria calda al pomeriggio e di notte si abbassa sensibilmente la temperatura.
La vigna è circondata dalla folta macchia boschiva del Forteto che fa da barriera protettiva e filtra le nefandezze che le improprie cure delle viti più a valle rilasciano; il frutto che ne deriva è puro, proprio grazie alle condizioni naturali in cui nasce e cresce.
Una realtà prodotta da un pensiero consapevole che parte proprio dalla delimitazione di un perfetto quadro ambientale in cui è importante anche la cornice.
D’inverno le nebbie che salgono dalla Valle Belbo arrivano fino alle falde del bosco senza spingersi dentro il vigneto.
Una volta i contadini, prima di piantare una vite, cercavano un luogo il più possibile ventilato e soleggiato: “Dicevano che quel posto doveva avere la vocazione della vigna”.
Il primo filare è di Dolcetto, uva nera, per camuffare quella di Moscato, che sta dietro ed è ambita da bambini o passanti ingolositi dalla dolcezza dei suoi acini.
Piasa sta per piazza, zona soleggiata, e rischei vuol dire faticare, lavorare duramente, ruscare.
Anche la vite qui deve ruscare, perché non gli viene data acqua né fertilizzanti e “deve sbattersi da sola per mettere nell’acino tutto quello che serve per la sua sopravvivenza: gli zuccheri, che sono nutrimento, i polifenoli, antiossidanti, le sostanze aromatiche, antisettiche”, tutti ingredienti che troviamo poi nel vino e fanno la qualità.
La qualità, prima che in cantina, si fa in collina e nelle colline più difficili e la qualità migliore la danno le viti vecchie. Le radici delle viti ci mettono anni e anni ad andare in profondità nella terra e più arrivano in fondo e più il vino è buono.
I grappoli sono piccoli e spargoli.
Le rese sono basse; 30/35 ql. per ettaro (la media in queste zone è quasi sempre superiore ai 100 ql.) e ancor più bassa la resa in vinificazione (18 ettolitri per ettaro).
Un’analisi compiuta su tre grappoli di Moscato, uno di una vigna vecchia da agricoltura convenzionale, uno di una vigna da agricoltura spinta per fare quantità e uno di Piasa Raschei, ha rivelato che quest’ultimo ha il triplo di terpeni rispetto al primo e il doppio rispetto al secondo.
Il disciplinare consente di vendemmiare dal 20 settembre in poi ma in questa vigna le uve vengono colte molto più tardi. Normalmente si fa un primo passaggio raccogliendo i grappoli più maturi in cassette piatte per evitare di schiacciare gli acini. La raccolta di queste uve è come un rituale: i grappoli non vengono gettati nelle cassette ma accompagnati e disposti con cura, perfettamente integri, come se dovessero andare ad un’esposizione. Alla fine però non è solo un’operazione estetica, perché così si salvaguardano i polifenoli, che consentono al vino di invecchiare bene.
Seguono altri due passaggi nell’arco di 2/3 settimane: “Passiamo col cavallo: abbiamo un Haflinger e un Bardigiano (sono di piccola costituzione e adatti a girarsi agevolmente tra le vigne), che trascinano una slitta, il rabèl. Nelle vigne ripide e scoscese non si va mai con le ruote”.
Le uve vengono poi messe su stuoie e fatte appassire. Il processo di appassimento si svolge nella parte vecchia della cantina, in un ambiente che risale al ‘700 e che, anticamente, veniva utilizzato come fruttaio o per metterci il fieno che si voleva conservare asciutto.
Costruito con pietre a secco sovrapposte, garantiva e garantisce ancora oggi un’areazione naturale dei locali: “Queste pietre sono in grado di filtrare anche eventuali evaporazioni. Le uve rimangono sui graticci non più di un mese, perché il Moscato è un’uva aromatica e, col troppo appassimento, tende a perdere l’aromaticità e poi ha la buccia molto sottile e c’è il rischio che possa marcire”.
La spremitura delle uve surmature (i cui acini sono già infavati da Botrytis nobile) viene fatta con una pressa a mano da 3 atm.: “Lasciamo la vinaccia in pressa tutta la notte e, al mattino, gocciola ancora”.
La cantina con le botti di Piasa Rischei
La fermentazione viene poi attivata con il lievito madre e prosegue, per oltre 24 mesi, in piccole botti di rovere allineate e sovrapposte in una apposita sala nella vecchia cantina: “Questo posto lo chiamo la ‘sala parto’, perché qui ci sono i lieviti che fanno nascere enologicamente il passito. Sul fondo di ogni botte c’è il lievito madre. E’ sempre lo stesso, di anno in anno. Ogni tanto facciamo un batonnage per ravvivarlo un po’. Avere il lievito vivo ogni anno ci consente di andarlo a prendere magari quando abbiamo bisogno di far partire una fermentazione con un inoculo. I lieviti, nati qui, sviluppatesi qui, rimasti chiusi nella loro botte, passano da una botte all’altra e non hanno possibilità di incrociarsi con altri lieviti: sono puri e incontaminati. Sono come alcune specie animali delle Galapagos che non hanno mai avuto la possibilità d’incrociarsi con altre specie, causa l’estremo isolamento di quelle terre. Come quelle creature hanno mantenuta inalterata la loro linea evolutiva così i nostri lieviti conservano intatta la loro purezza e tipicità”.
Piasa Rischei Loazzolo DOC
Da uve Moscato bianco appassite.
Gradazione effettiva: 11,5/12% vol.
Residuo zuccherino: 140 g/lt.
Gradazione complessiva: 21% vol.
La DOC Loazzolo, dal 1984, è la più piccola DOC d’Italia, fortemente voluta da Gino Veronelli, che ha fatto anche la più piccola DOCG d’Italia; il Moscato di Scanzo.
Le uve fatte appassire concentrano profumi, colori, polifenoli che vengono ulteriormente esaltati da 24 mesi di fermentazione in legno.
Si sente la parte speziata, quella aromatica, la dolce e la tannica.
Circa mille litri di vino all’anno per meno di 3000 bottiglie da 37,5 cl.
L’imbottigliamento avviene nella primavera del terzo anno dopo la vendemmia.
Si presenta di un colore ambrato brillante, evocante la patina satinata dei fondi oro nelle tavole del Beato Angelico o nell’Annunciazione di Simone Martini, dove il massimo dell’opulenza aurea si compendia con la semplicità dirompente dell’annuncio.
E’ un miracolo della natura che si manifesta nel bicchiere con una complessità stracolma di pregevoli sfumature, un nerbo teso, spesso e un carattere che cresce euforicamente ad ogni assaggio, col profumo croccante della buccia del dattero, di quello affilato della polpa del litchi, la fragranza dell’albicocca, del miele d’api, come dentro a un alveare ma, anche, l’aroma della Tonda Gentile di Piemonte, ovvero la nocciola che i contadini delle Langhe fanno tostare ad una temperatura che arriva fino a 170°, senza bruciarla.
Una vera e propria immersione nell’oro liquido, sontuosa al naso e al palato che mantiene un grande equilibrio per numerosi anni: “Quando ho cominciato a fare il Passito a Loazzolo, mi dicevano che il Moscato non era adatto a fare vini a lungo affinamento. Ma io sapevo che era un’uva molto versatile e poi avevo letto il Manuale di Enologia Arnaldo Strucchi (enologo di Gancia negli anni 70/80 dell’Ottocento) il quale sosteneva che ‘il Moscato raccolto tardi, fatto appassire e vinificato, viene buono dopo dieci anni’ “.
Puoi berlo anche da solo ma si accompagna bene a formaggi stagionati, foie gras, offelle e pasticcini.
Pasucrà Piemonte Moscato Secco DOC
Gradazione: 12,5% vol.
Da pa (non) e sucrà (zuccherato), ovvero non dolce.
E’ un Moscato secco di colore chiaro perché viene da uva Moscato bianco e quindi non è da non confondere con i Moscati secchi valdostani o trentini o alsaziani, che sono gialli intensi.
Ha un aroma deciso di minerale, agrumi e idrocarburi complessi.
In bocca è fresco, sapido e persistente.
Rappresenta la parte contadina del Moscato perché quello dolce se lo gestivano le grandi aziende dello spumante.
Quando il contadino voleva fare un po’ di vino da bere per sé, faceva il Moscato secco: “Era considerato un sottoprodotto perché, per ottenere il Moscato dolce bisognava portare avanti una fermentazione ininterrotta, invece il contadino la interrompeva, filtrava e poi la riprendeva”.
Un’associazione di 8 produttori di Langhe e Monferrato è riuscita ad ottenere un disciplinare per il Moscato secco, che delimita una zona di produzione e ne regolamenta la produzione sia in vigna che in cantina con diverse restrizioni. L’associazione si è chiamata Escamotage, un nome “di protesta” contro le innumerevoli difficoltà burocratiche riscontrate ma, nel 2020 la Regione Piemonte ne ha recepito le richieste ed è nato il Piemonte Moscato secco DOC.: “La pubblicazione sulla gazzetta ufficiale è avvenuta in ottobre, quando ormai quasi tutti avevano vendemmiato il Moscato ma noi, facendo vendemmia tardiva, siamo stati l’unica cantina che è riuscita a rivendicare la DOC, nel 2020.”
E’ un vino macerato: fa tre giorni sulle vinacce a zero gradi, poi viene svinato.
Il colore rimane chiaro ma prende molti profumi.
Seguono 45 giorni di fermentazione ininterrotta in acciaio a 14 gradi e poi subito imbottigliato.
Profumo di lievito, crosta di pane, tanta sapidità.
Un vino moderno ma antichissimo, figlio della tradizione contadina del filtrato dolce che, col passare dei mesi estivi, diventava secco.
Sta benissimo con crostacei, molluschi, carni bianche.
Mon Ross Barbera d’Asti DOCG
Gradazione: 13,5% vol.
Da mon (mattone) e ross (rosso).
Colore rosso rubino con un frutto cospicuo, freschezza e vinosità.
Corpo ricco da giovane e succoso con qualche anno d’invecchiamento.
Viene ottenuto da uve mature e con una breve macerazione e un passaggio nelle barrique raschiate: “Le barrique di 2 o 3 anni che scartiamo, le facciamo smontare dal bottaio che poi raschia le doghe fino ad arrivare al legno bianco. Lo spessore di una doga è di 2,5 cm., così si possono togliere 2,5/3 mm. per volta, ogni tre anni, fino a dieci anni. La Barbera fatta così ha meno tannino, perché se la metti in una botte nuova prende subito il tannino del legno”.
E’ una Barbera fisica. Da Giacomo Bologna in poi la Barbera ha cominciato a prendere due strade: quella in acciaio e quella in legno (barrique o tonneau).
Per compensare la carenza di tannini in quelle in acciaio vengono aggiunti additivi tannici consentiti dai regolamenti: “Negli ultimi anni, la Barbera, un po’ dovunque, è diventata ‘baroleggiante’ cioè rinforzata, perdendo la sua caratteristica originaria che è quella di essere un vino popolare, a tutto pasto, come il Lambrusco o la Bonarda, poco tannico e non da lungo invecchiamento”.
Il Mon Ross è un cru a circa 300 mt. di altezza, con pendenza medio-elevata. L’età media delle viti è superiore ai 30 anni: “Mio nonno mi diceva ‘tienila d’acconto questa vigna che è l’unica che hai da mattoni rossi ed è una fortuna avere una vigna di terra da ‘mòn’, perché ci sono gli idrossidi di ferro, l’ematite, l’argilla’. Da queste parti la terra da mattoni, quella rossa, è preziosa. Gran parte delle case è di mattoni rossi, fino a Canelli e oltre, mentre nel terreno in Langa prevale il silicio (la pietra di Langa), il calcare, la sabbia ed è prevalentemente chiaro”.
Puoi accompagnarlo a bagna caoda o stoccafisso ma anche ad un buon salame della duja.
Le Grive Monferrato Rosso DOC
Gradazione: 14,5% vol.
Di colore rosso rubino intenso, al naso si apre con un bouquet ricco e complesso: sentori di frutta rossa su note mentolate, poi vaniglia, cardamomo, resina e liquirizia.
Evoluto anche al retronaso, marcante d’uva passa e tabacco.
In bocca è caldo, pasciuto, fitto, giunonico con una frustata sapida finale che lo manterrà così per almeno altri dieci anni.
Grive è il nome dialettale dei tordi (Turdus pilaris), uccelli ghiotti di bacche dei ginepri che si trovano in prossimità delle vigne e di cui si cibano nei loro transiti: “Mio nonno diceva ‘fa tinsiùn che arrivano le grive e ti fan fuori l’uva’. Era ossessionato da questi uccelli migratori che vedeva volare sulla vigna e, temendo che mangiassero l’uva, metteva degli spaventapasseri e degli spauracchi per dissuaderli. In effetti i tordi erano interessati solo alle bacche del ginepro e delle rose selvatiche”.
Le uve, raccolte con vendemmia tardiva, le danno due vigne più o meno grandi uguali, una di Barbera e una di Pinot Nero: 50% di vino Barbera (16 gradi) e 50% di vino Pinot Nero (14,5 gradi), vinificati separatamente e poi assemblati.
E’ un assemblaggio poco frequente ma ci sono casi famosi come il Sostegno di Marchesi Alfieri e il Bacialè di Braida (in cui, oltre a Barbera e Pinot Nero, c’è anche Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc).
A Loazzolo, c’è più Pinot Nero che Barbera o Dolcetto o Nebbiolo e Freisa messi assieme, grazie ai Gancia che da metà ‘800 avevano incoraggiato i contadini ad allevarlo un po’ dappertutto, insieme allo Chardonnay: “Il mio bisnonno materno Tommaso detto Tumasìn, quando ero un bambino di poco più di 10 anni, mi diceva: ‘Su cùj piàn jèva tùtt Pinò. Po’ l’àn gavàlu parchè ‘l rindìva pòc’. Per fortuna una vigna di Pinot Nero l’abbiamo tenuta”.
Fino ai primi decenni del Novecento, su queste colline, il Pinot Nero è sempre stato nelle mani dei mediatori: “I contadini caricavano le uve sui loro carri e le portavano giù nello spiazzo per la vendita. I compratori erano Gancia, Contratto, Riccadonna, Coppo. Tutti insieme si trovavano a cena la sera prima e stabilivano il prezzo che i mediatori dovevano pagare”.
Per i contadini si trattava di prendere o lasciare e finivano sempre per prendere, in quanto riportare a casa l’uva era impensabile, perché era deperibile e bisognava farla fuori per forza: “E’ capitato che il mio bisnonno Tumasìn si arrabbiasse perché non voleva regalare il frutto del suo duro lavoro. Così tornava a casa con la sua uva e la pigiava per bersela. Ma quel Pinot Nero vinificato in rosso, non era da bere subito, era molto tannico e bisognava aspettarlo. Così lo tagliava con la Barbera e ne veniva fuori una specie di Barbera rinforzata”.
L’acidità della Barbera e il tannino del Pinot Nero messi insieme si equilibravano e davano morbidezza al vino, così si poteva bere anche subito.
Le Grive fa 12 mesi di affinamento in botte nuova: “Dopo tre anni, le botti esauste in cui mettiamo Le Grive, le mandiamo alla raschiatura per passarle al Mon Ross”.
L’imbottigliamento si fa a novembre: “Imbottigliamo sei mesi dopo la prima Barbera che va in bottiglia a marzo con la luna nuova”.
Da giovane si accompagna bene a minestroni, verdure cotte e paste con sughi saporiti. Con qualche anno sulle spalle è giusto per arrosti succulenti e formaggi stravecchi.
Piasa Sanmaurizio Moscato d’Asti Canelli DOCG
Gradazione effettiva: 5,5% vol.
Residuo zuccherino: 130g/lt.
Gradazione complessiva: 13% vol.
Colore giallo paglierino con riflessi dorati. Perlage fine e persistente.
Aroma intenso di sentori fruttati, salvia, fiori, miele.
Dolce in bocca, cremoso, fresco e con una venatura di acidità che permane con l’aromaticità spiccata.
Nel 2024 la denominazione sarà Canelli Moscato e, nel giro di pochi anni, anche la parola Moscato dovrebbe sparire e rimanere solo il luogo: Canelli.
Non è un vino ma un mosto parzialmente fermentato che si fa in 25 giorni e rimanda al grappolo appena spremuto.
Un terzo delle uve, arriva da una vigna a Loazzolo e due terzi dalla vigna Sanmaurizio, in località San Maurizio a Santo Stefano Belbo, che fa parte dei beni Novelli, (la famiglia materna di Gianni).
Le uve giunte a piena maturazione, vengono vendemmiate a mano, pressate e subito fermentate coi lieviti madre della casa appositamente selezionati: “Il mosto viene bloccato a metà fermentazione ottenendo metà succo d’uva e metà vino”.
Dopo la stabilizzazione s’imbottiglia in Borgognotte.
L’etichetta è la riproduzione di un biglietto d’epoca esistente in azienda.
Da bere freddo (8/10°C.); s’abbina bene a sottobosco, pasticceria e gelati.
Walter Massa, contadino di vigna e di cantina, come Gianni, sostiene che il vino è l’equilibrio sopra la follia[1], un equilibrio che si ottiene con una formula semplicissima: “uva matura, buon senso e tempo”.
Più l’uva è sana, non contaminata da sostanze estranee e nocive alla sua integrità e purezza, più il buon senso si fa coscienza che alimenta la forza del pensiero del produttore, più si dà tempo al vino per evolversi, per diventare autentica espressione della terra da cui deriva e più ripaga la tua attesa.
Giovanni Scaglione parte da qui per fare i suoi vini.
Sono il risultato di una viticoltura rispettosa della terra e di una grande sensibilità enologica: una specie di geovinizzazione, ovvero l’interpretazione della natura per migliorare la qualità della vita umana attraverso il vino.
[1] La frase in cui è contenuta la citazione di Walter Massa, tratta da “Sally” di Vasco Rossi è: “La vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia”.