L’Azienda di Luigi Tecce si trova in contrada Trinità a Paternopoli, nell’areale del Taurasi DOCG, con vecchi vigneti di famiglia, il cui nucleo storico è costituito da piante secolari, allevate maggiormente nella forma tradizionale della alberatura taurasina (starseto). Sono frazionati in piccoli appezzamenti, in corpi diversi,  esposti a sud,  tra Castelfranci e Paternopoli, ad un’altitudine compresa tra i 500 e i 600 metri sul livello del mare, tra le più alte della Valle del Calore.
I terreni sono a composizione calcarea, marna vulcanica, depositi marini, fossili.
Luigi, classe ’71, rappresenta la quarta generazione di una famiglia di viticoltori.
I suoi vini sono dei capolavori creati grazie alla sperimentazione continua, alla cura della vite e alla selezione delle uve.
Luigi li chiama Taurasi POLIPHEMO (cui si richiama l’occhio nel logo della sua Azienda), Irpinia Campi Taurasini SATYRICON (come l’opera latina di Petronio Arbitro) e  Irpinia Rosato LA CYCLOPE (a fermentazione spontanea e breve maturazione sulle bucce), tutti Aglianico 100% e nei loro nomi c’è la poesia e la letteratura di un contadino irpino colto e dall’animo genuino.
Produce anche un bianco, dedicato a sua madre, il MAMAN Bianco (Greco 45%, Fiano 25%, Coda di Volpe 25%, Moscato 5%) che fa due settimane di macerazione sulle bucce (la metà per il Greco) per una produzione di poco superiore alle mille bottiglie.
E’ un vero cultore della vite, nel senso intellettuale del termine e sulle etichette delle sue bottiglie scrive Luigi Tecce Viticultore.
Luigi Tecce nella tavernetta della sua cantina
Alcune di queste etichette sono delle vere e proprie chicche nate dall’estro dell’artista Vinicio Capossela, compagno di territorio, di merende e di bevute.
Come Maga Lino, che ha scritto un’epopea del vino anche grazie a certe sue scelte eroiche, Luigi è un connubio tra filologia e ampelologia: la prima intesa non come scienza ma come attaccamento alla parola, alla narrazione e la seconda come passione inesauribile per la vite.
E come Maga Lino, è contrario all’utilizzo delle moderne tecnologie enologiche e fa il vino come si faceva 1000 anni fa, nella maniera più naturale possibile: senza lieviti selezionati, chiarifiche, disacidificazioni, filtrazioni, aggiustamenti chimici e senza il ricorso a sostanze estranee al patrimonio qualitativo delle uve.
E’ per questo che i suoi vini sono in continua evoluzione e non temono il tempo.
Io non uso prodotti di sintesi, pochi solfiti in fermentazione e zero in imbottigliamento. Ho avuto la fortuna di assaggiare vini molto vecchi, c’era molta solforosa. Nel momento in cui andiamo a solfitare un vino in imbottigliamento probabilmente ne allunghiamo la sua tenuta nel tempo ma ne annichiliamo l‘evoluzione.
Fino a 15 o 20  anni fa, i vini del Nord del mondo erano vini d’invecchiamento e quelli del Sud, dozzinali, da consumo quotidiano. Perché al Nord, da quando hanno piantato la vite, al tempo dei Romani non sempre era garantito il raccolto e tre anni su dieci non si vendemmiava. Di qui l’esigenza commerciale di conservare, accantonare, far delle cuvée per aver sempre disponibilità di prodotto  da vendere.
Il Sud invece vendemmia tutti gli anni. Non c’è bisogno di conservare, specie se non c’è più un ceto aristocratico.
Il contadino non conserva il vino. Lo conservava l’imperatore per i patrizi.
Nella nostra storia, dal 1700 in poi, abbiamo avuto il più grande uomo che abbia governato il sud: Carlo III di Borbone, passato alla storia con due nomi; Carlo I re di Spagna e Carlo III re di Napoli. Si devono a lui gli scavi di Pompei ed Ercolano, il museo archeologico, il teatro San Carlo, l’ospizio dei poveri, le strade.
La sua politica (come quella di Pietro il Grande, lo zar di Russia), obbligava tutti i baroni e i principi del grande regno delle due Sicilie a costruire palazzi a Napoli. Napoli così è diventata una città splendida ma l’entroterra si è impoverito del ceto aristocratico ed è rimasto un luogo di sfruttamento. I grandi investimenti  venivano fatti lontano da qui perché qui non c’erano i nobili.
Se pensiamo ai vini importanti che hanno fatto grande la Toscana ci vengono in mente subito quelli dei Marchesi, anche se la Toscana non ha mai avuto una vera aristocrazia, una vera nobiltà. Gli stessi Medici non erano nobili: Lorenzo il Magnifico era un ricco mercante e il suo pronipote, Cosimo II, il titolo nobiliare se l’è comprato. Quasi tutti i nobili toscani compreso Antinori erano banchieri o ricchi borghesi.
La vera aristocrazia, la vera nobiltà era meridionale, di stirpe guerriera, di spada: aragonese, normanna, angioina, spagnola, sveva.
Gli imperatori di Roma, i più intellettuali, avevano la residenza a Napoli.
Napoli ha parlato greco durante tutto il periodo romano.
Napoli è stata bizantina e mai occupata dai barbari.
Qui in Irpinia invece c’è stato il ducato di Benevento e abbiamo avuto i Longobardi. Solo dal periodo normanno in poi la nostra storia segue quella di Napoli”.
 
Assaggiamo, anzi beviamo (perché certi vini non puoi limitarti ad assaggiarli!) un  Irpinia Campi Taurasini Rosso DOC SATYRICON 2014
Un anno di legno e due di bottiglia. Acidità totale 8,30 e 15,20 di alcol.
Rubino carico con riflessi porpora. Appena porti il bicchiere al naso senti subito la prugna e l’amarena sotto spirito. Poi i piccoli frutti del sottobosco, spezie dolci, cannella e un piacevole sentore di chinato.  Alla beva ti arriva in bocca un succo energico con una cospicua trama tannica in cui si alternano morbidezza e sapidità in un eccellente equilibrio gustativo. Perfetta sintesi di potenza e finezza, complessità ed eleganza, sobrietà ed opulenza. Una forma di erotismo enologico. E ti vengono in menti i satiri licenziosi di Petronio, cui si è ispirato Luigi per battezzare questo vino: “Con la 2014 ho dovuto misurarmi, per la prima volta nella mia vita, con la peronospora larvata che attacca il frutto e incarta la superficie fogliare. Le mie vigne hanno subito un diradamento naturale forsennato che personalmente non avrei mai avuto il coraggio di fare.  In 5 ettari ho prodotto solo 13000 bottiglie.
In un anno in cui non c’è mai stato sole, la pochissima uva rimasta sulle piante ha raggiunto equilibri impensabili, molto simili a quelli della 2001. Acidità abissale e grado alcolico molto alto”.  
 
Beviamo un Taurasi DOCG POLIPHEMO 2011. (Annata molto calda, agosto torrido).
 
Rosso rubino denso. Naso completo con sentori complessi di gelsomino e frutta matura, sopra a tutto la mora e spezie. E poi incenso, carruba, corteccia e torrefazione.
Bocca strutturata, concentrata, fresca. L’alcol ti accompagna in una felicità aromatica strepitosa, ritmica che sboccia in un glorioso finale minerale.
Si armonizzano i tannini, la chiusura è austera, quasi violenta e nel bicchiere continua ad aprirsi: “Molti hanno pensato che io avessi chiamato il mio vino Poliphemo perché ispirato alla forza. Invece Polifemo è l’ammonimento del saper bere: se non sai bere, vieni accecato dall’astuto. E’ la consapevolezza del saper bere. Quando Dioniso regala all’uomo il vino, contemporaneamente regala le regole per berlo.
Devi sapere che nasconde la belva e che devi ingaggiare una caccia. L’uomo è chi sa bere non chi beve!
Polifemo è un ominide, è forte  ma l’astuto greco lo ubriaca e lo sconfigge.
È un monito, un simbolo della cultura greca e del vino stesso.
Il vino, nel simposio greco, serviva per sciogliere la bocca e si consumava solo dopo aver assunto cibi solidi.
I Greci deploravano l’ubriachezza, la consideravano non degna di un uomo civile ed evitarne le conseguenze era fondamentale. Una delle regole del simposio era il “cottabo” che consisteva nel lanciare il vino rimasto nel fondo della coppa, in un bersaglio in bilico, solitamente delle barchette che galleggiavano in un piccolo specchio d’acqua. E per riuscirci dovevi essere sobrio, dimostrare che eri uomo.
I Greci erano veri razzisti sull’argomento vino: per loro, l’uomo non era colui che possedeva il vino ma  colui che lo sapeva bere.
Il monito di Polifemo è eterno. Poi è anche un gigante simpatico a tanti perché è il contraltare di Ulisse, affascinante, intelligente, bello, l’archetipo dell’uomo moderno con la sua smania di potere, le sue menzogne che, pur di raggiungere un obiettivo non disdegna di ricorrere anche alla truffa.
Noi occidentali abbiamo la convinzione che i buoni siamo solo noi e tutti gli altri non valgano niente. E i primi a manifestarlo apertamente furono personaggi come Francisco Pizarro, conquistatore dell’impero Inca e il generale Custer sterminatore degli indiani d’America. Questi sono tutti degli Ulisse, mentre Polifemo rappresenta i popoli andini, gli Apache che sono stati considerati selvaggi dall’uomo bianco.
Lo stesso per i Greci: chi era Greco era uomo, chi non era Greco non era uomo.
A differenza della stragrande maggioranza della popolazione meridionale, l’Irpinia non è mai stata “magnutricizzata” perché era un popolo già forte, d’identità Osco Sannita, Indico, Italico preparato all’influsso greco. I Greci, più di ogni altro popolo, hanno scritto! Hanno lasciato tracce. Hanno grecizzato. E non ammettevano che ci fosse civiltà a Occidente di loro.
Al Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino di Montesarchio, poco distante da qui, ci sono le tombe di notabili sanniti che conservano straordinari crateri di fattura ateniese di produzione attica e italiota tra cui il vaso di Assteas, del IV secolo a.C., esumato da tombaroli in una necropoli a Sant’Agata de’ Goti.
Augusto commissiona al sommo Virgilio l’Eneide, per giustificare, da un punto di vista mitico, la nascita di Roma e della propria stirpe.
Ed Enea scappa dalla guerra di Troia: viene tutto da là!
Questa è la nostra eredità: bella e malefica.
Ce l’ha portata Ulisse: nù strùnzo!”.
Beviamo un Irpinia Campi Taurasini Rosso DOC SATYRICON 2010.
                                                               
Un canestro di frutta.  Una promiscuità di sentori che ti disorienta: ciliegie, mirtilli, prugne, more, susine, ginepro…
E poi fiori come viola, iris e lavanda, cui seguono le spezie dolci e una gradevole nota di tabacco.
In bocca è impetuoso, esuberante, fresco come un giovane pimpante: il tannino è deciso ma dolce, avvolgente, morbido, mai aggressivo con acidità e struttura notevoli.
“Fra altri dieci anni perderà la sua meridionalità.
Qui siamo a 500 metri sul livello del mare, un po’ più in alto di Recanati.
Abbiamo l’aria che viene dal Tirreno. E il vento. A dieci chilometri da qui, a Bisaccia, c’è il più grande parco eolico d’Europa sulla terraferma (il più grande in assoluto è quello del mare del Nord)”.  
 Beviamo un Taurasi Riserva 2001 (senza etichetta).
Un impatto olfattivo che sa di vaniglia, di legno, morbido al palato e delicato ancorchè corposo dei suoi 15 gradi alcolici. Con la dolcezza esuberante dei grandi vini. Dolce di frutto, colore di vino giovane, da un lato maturo, dall’altro acido.
Un miracolo della natura che si manifesta nel bicchiere con una complessità stracolma di pregevoli sfumature, un nerbo teso, spesso e un carattere che cresce euforicamente ad ogni assaggio.
Una creatura mitologica in tutti sensi con la stazza del gigante e la tenerezza dell’infante.
Nebbiolo ammantato di Lambrusco: “Annata anticipata, inverno mite, primavera calda e da aprile vegetazione alta 15 centimetri. Il 16 aprile neve. Di notte il gelo e al mattino sole splendente.
Tutti i migliori cru sono stati arsi dal gelo e su 5000 metri quadri di vigna storica ho prodotto solo 9 quintali di uva.
C’erano  grappoli  formati (a luglio) con acini grandi e altri ancora in fioritura. Una difformità di maturazione spaventosa ma che ha portato le prime vigne ad avere una surmaturazione glicerica marmellatosa, zuccherina e le seconde, un’acidità considerevole.
Un’annata che ha storpiato un vigneto e creato un grande vino pur con un limite tecnico: ha fatto rovere nuovo”.
 La bottaia
Beviamo il MAMAN Vino Bianco 2015 (Greco 45%, Fiano 25%, Coda di Volpe 25%,Moscato 5%).
 
L’interpretazione tecciana di un vino bianco macerato che alla vista diresti un orange per poi scoprire che è lontano mille miglia da questa tipologia.
Dedicato a sua madre Filomena Memmolo, classe ’45, scomparsa poco tempo dopo la nascita di questo vino.
E’ un immersione nell’oro liquido intriso di pompelmo, cereali, dattero, salvia mela Chianella.
Non c’è traccia di ossidazione nemmeno sottoforma di suggestione.
Nel bicchiere vuoto, tra effluvi d’incenso rimangono i petali essiccati di camomilla e la loro corolla gialla azulenosa, l’uvetta  grattugiata e impastata con olio essenziale di ginepro: “Mia madre mi ha fatto nascere qui. La fortuna più grande per un uomo è nascere in un  contesto geografico-storico rilevante e questa parte dell’Irpinia lo è.
E poi la mia storia generazionale mi ha fatto due regali: Varenne  e Diego Armando Maradona.
Quando Maradona è arrivato a Napoli era il 5 luglio 1984. Io sono nato il 5 luglio 1971. Per un ragazzo di 13 anni come me è stato un regalo della storia, una di quelle cose che ti restano nel cuore. Di Varenne potrei star qui a parlare delle ore. Non c’è più stato un campione come lui. Gli ho dedicato il mio 2001, perchè in quell’anno, il grande trottatore, ha conseguito i suoi massimi trionfi.
In seguito ho fatto anche un’etichetta di Taurasi Riserva DOCG che ho chiamato PURO SANGUE.
Ci sono stati altri campioni ma nessuno può competere con questi due”. 
 
 Il vino, come sostiene Walter Massa, contadino di vigna e di cantina dei Colli Tortonesi, è un equilibrio sopra la follia, (citazione tratta da Sally, di Vasco Rossi) che si ottiene con una formula semplicissima: uva matura, buon senso e tempo.
Più l’uva è sana, non contaminata da sostanze estranee e nocive alla sua integrità e purezza, più il buon senso si fa coscienza che alimenta la forza del pensiero del Produttore, più si dà tempo al vino per evolversi, per diventare autentica espressione della terra da cui deriva e più ripaga la tua attesa.
Luigi Tecce parte da qui per fare i suoi vini. Sono il risultato di una viticultura rispettosa della terra e di una grande sensibilità enologica: una specie di geovinizzazione, ovvero l’interpretazione della natura per migliorare la qualità della vita umana attraverso il vino.
Ancor più che vini naturali, sono vini animali, vini con un’anima dentro, fatta di territorio-ambiente, etica alimentare, cultura enoica.
Luigi è il vignaiolo che, oltre ad accompagnare la vite e i suoi frutti verso l’esito più istintivo e naturale senza intervenire né manipolare, col suo ingegno instaura una relazione di gratitudine con ciò che ottiene per far riaffiorare la memoria energetica, l’anima enoica, appunto.
Un miracolo che avviene garantendo la massima longevità di questi vini che, sgravati da tutte le componenti soggette a degradazione, si mantengono intatti e inalterati per anni.
In ogni suo bicchiere, c’è il tributo di un lavoro appassionato, sapiente, amorevole che ti sorprende ad ogni sorso col suo racconto, la personalità e l’umanità di un talento che sovrasta ogni tecnologia.
In pochi altri vini si può trovare una contemporaneità tanto eclettica, fatta di parole nuovissime come conoscenza, educazione, dignità e coscienza che ti rimandano ad alfabeti antichi facendo uscire dalla mediocrità la saggezza degli artigiani fatta di cuore, di dedizione, di genialità sfidando gli equilibri sopra la follia.
Da qualche anno a questa parte il mondo del vino sta riguadagnando la dignità che gli compete, distinguendo e dando sempre più importanza agli artigiani e all’artigianalità come potente rivendicazione della priorità della mano dell’uomo che diventa artefice.
Una presa di coscienza nazionale cui anche Luigi ha contribuito, col suo pensiero sempre diretto all’essenza dei problemi, con il riconoscimento  del ruolo primordiale della terra, il rifiuto delle convenzioni e il coraggio di sostenere le proprie idee.
Luigi Tecce Viticultore Via Trinità 6    83052 Paternopoli (Avellino)