L’antropovinizzazione: Walter Massa e Il miracolo del Timorasso.
L’agro Tortonese ha secoli di storia che interessa montagna, collina e pianura.
Su quest’areale di una quarantina di chilometri di lunghezza, che spazia dalle rive del Po, coi suoi boschi di pioppi, a quelle del Tanaro e Scrivia, si affacciano fertili terreni alluvionali e prati e boschi di castagno e quercia e vigneti che pian piano salgono verso i pascoli del Giarolo.
Qui, diversi comparti agricoli sono stati interessati da un percorso evolutivo di intensificazione delle zone di pianura, che ha generato la ricerca e il raggiungimento di livelli qualitativi sempre più elevati.
Le produzioni tipiche delle aree marginali, sono diventate man mano più riconoscibili sui mercati e oggi l’agricoltura tortonese può vantare numerose varietà di specie coltivate, nonché di preparazioni gastronomiche di qualità ad esse correlate.
Prime tra tutte le pesche di Volpedo, poi la Fragola profumata di Tortona, la Cipolla Rossa di Castelnuovo, la mela Carla della Val Borbera, la ciliegia Bella di Garbagna (cultivar autoctona), la patata quarantina e il mais Ottofile tortonese.
Ma in tutta la fascia collinare la regina è la vite che dà rinomate uve per vini bianchi e rossi.
A testimoniare l’importanza della vite nel Tortonese (30 Comuni per oltre 2000 ettari di vigneto) ci sono numerosi reperti: dal mosaico di epoca romana, raffigurante un grappolo d’uva (ora al Museo Civico locale), alle anfore vinarie di età imperiale, rinvenute a Castelnuovo Scrivia.
Ma è anche significativo il fatto che, già nel 1869, un gruppo di viticoltori, per primi nel Regno d’Italia, deliberò di stilare le Ampelografie dei Circondari zonali (da cui il decreto del 27 aprile dello stesso anno emanato da Marco Minghetti, Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio con il quale s’istituiva un’apposita Commissione per redigere l’Ampelografia della Provincia di Alessandria, cui presero parte numerosi esperti del Circondario di Tortona).
Su queste terre, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, è avvenuto un miracolo che si è manifestato proprio sotto forma di una vite, il Timorasso, che qui un tempo era comune e di un uomo non comune, con l’orgoglio dell’appartenenza, la determinazione dei giusti, una visione fisica e intellettuale e il credo nelle proprie radici: Walter Massa, figlio di contadini da quattro generazioni (dal 1879).
Monleale, dal latino Mons Legatis, Monte della Legalità e dal dialetto Mulià, ovvero terra molle, per ricchezza idrica, è il posto dove il miracolo ha inizio.
Sulle terre che gli gravitano attorno, sono nati e cresciuti personaggi come Fausto Coppi, suo fratello Serse, Giovanni Cuniolo detto Manina (vincitore di un record dell’ora), Luigi Malbrocca, detto il cinese (mitica “maglia nera” del giro d’Italia), Lorenzo Perosi (uno dei più grandi compositori italiani di musica sacra), Felice Giani (pittore tra i massimi esponenti del Neoclassicismo), don Luigi Orione (fatto santo da papa Giovanni Paolo II, nel 1980), Piero Leddi (pittore “ex vivente”, secondo la definizione di Walter Massa) e Giuseppe Pelizza, talmente attaccato alla sue radici, da aggiungere al suo nome “da Volpedo”.
Proprio dalla piazza di Volpedo, volgendo lo sguardo verso l’alto, l’autore della Fiumana incontrava Monleale, arrampicato su per un cucuzzolo e dominato da un campanile, che immortalerà su una tela, mentre si slancia a catturare il sole.
La cantina dove avviene il miracolo è proprio sotto quel campanile, sul fianco della collina dalla quale ti vengono incontro le viti, che sembrano quasi galleggiare sui delicati pendii, resi morbidi dal fiato del non lontano mare.
Qui confluiscono quattro regioni, ognuna delle quali sembra voglia contendersi questo luogo: il Piemonte, con una sequela interrotta di dolci colline, la Lombardia, con la grande pianura del Po e l’Oltrepò, l’Emilia, coi rilievi del vicino Piacentino, che risuonano delle vigorose melodie verdiane e la Liguria, colle sue brezze marine.
E il suggestivo incrocio si manifesta, con grande forza evocativa, nelle parole di Walter quando dice che, il vino che vi nasce, è un prodigio “creato e dominato da quattro elementi vitali: l’acqua della Liguria, l’aria della Lombardia, il vento dell’Emilia” e la terra del Piemonte”.
Walter Massa è il padre putativo del Timorasso, pioniere della scoperta di questo vitigno: quando pensi al Timorasso pensi a Walter Massa e viceversa.
È forse l’unico caso al mondo di antropovinizzazione, cioè di perfetta identificazione di un uomo con un vino.
Ed è anche artefice del rilancio di un intero territorio: i Colli Tortonesi.
La sua è una rivoluzione colturale e culturale insieme, perché come dice lui il vino è cultura.
Grazie a lui i vecchi contadini di queste parti si trasformano in nuovi contadini, con l’orgoglio di essere contadini, che dialogano insieme, fondano cooperative, si confrontano e diventano essi stessi Territorio.
È uno dei più eclettici interpreti della viticoltura moderna, diventato ormai una figura leggendaria nel mondo vitivinicolo, non solo italiano.
È nemico di ogni burocrazia, istrionico, anticonformista, caparbio, schietto, irriducibile, imprevedibile, orgogliosamente legato alla terra e alla sua terra.
È stato definito in mille modi: signore del Timorasso, Maradona dei Colli Tortonesi, capo-nicchione, vignaiolo Angelico, portabandiera dei Vignaioli etici, contadino-resistente, Eretico, Profetico, Estremista di Centro, Anarchico Costituzionale, genio e sregolatezza, enfant terrible, rock star del vino, il Santo di Monleale (su Lavinium, 7 agosto 2018) ma la definizione che lui preferisce è quella di Partigiano del Vino, frutto di una crasi tra produttore e artigiano che compare per la prima volta su Storie di Coraggio (2013), del suo amico Oscar Farinetti.
Questo Partigiano del Vino resterà nella storia enoica italiana per aver dato il via al risorgimento dei Colli Tortonesi, facendo diventare quelle colline oggetto d’investimento da parte di nomi prestigiosi come la Cascina La Ghersa di Moasca, Alfredo e Luca Roagna di Barbaresco, Borgogno di Barolo, Vietti di Castiglion Falletto e altri che hanno visto nel Timorasso una grande opportunità in cui credere.
”Il Timorasso ha origini antiche –dice con orgoglio– e viene citato nel Medioevo da Pier Crescenzio nel suo Ruralium Commodorum, opera agronomica ante-litteram.
All’inizio degli anni ’90, Attilio Scienza, professore ordinario di Viticoltura presso l’Università degli Studi di Milano, assaggiò il Timorasso rimanendone favorevolmente colpito e decise di studiare il DNA del vitigno per capire se è un sinonimo o se prima, o da altre parti è chiamato con qualche altro nome.
Le analisi e gli studi certificarono che il Timorasso è sempre stato solo Timorasso, senza sinonimi né parentele, se non per via genetica.
Ha un 3% di geni in comune col Vermentino, 6% in comune col Nebbiolo e un 20% in comune col Sauvignon Blanc e, per il resto, è completamente autoctono.
Il Timorasso ha grappoli medio-grandi, serrati e pruinosi.
Cresce su terreno argilloso-calcareo e sassoso e, grazie all’escursione termica più propizia, caccia molto precocemente come il Nebbiolo o il Moscato, a differenza della Lambrusca di Alessandria detta Moretto, ormai estinta ma che si allevava nell’hinterland del cavalcavia della Cavallosa tra Tortona e Alessandria, nella piana di Marengo, che cacciava molto tardi, evitando così il rischio di gelate, che potevano arrivare ancora nella prima settimana di maggio.
In molti dicono che il Timorasso ha il bouquet terziarizzato che ricorda quello dei grandi Riesling, la chiusura di bocca del Sauvignon e il corpo del Chardonnay, io però vorrei che assomigliasse soltanto a se stesso in quanto è, probabilmente, l’unico vino bianco italiano che, per disciplinare, prevede gli estratti minimi di 17 g. per litro, contro i soliti 15.
Le sue uve sono neutre, povere di terpeni e di pirazine, ma che sviluppano intensi profumi minerali.
Tra le sostanze, ritrovate nell’analizzarlo, ci sono il geraniolo, l’acido geranico e anche il composto TDN (trimetil-diidro-naftalene).
Ha fatto tutto da sola madre natura!
Io ho solo dato una mano a questo territorio a prendere coscienza della sua immensa vocazione al vino e la mia missione terminerà quando gli ettari vitati saranno almeno 3000.
Poi potrò dedicarmi alla politica e il Timorasso continueranno a farlo i miei nipoti.
Tanto, per fare vino, ci vuole una formula semplicissima: uva matura, buon senso e tempo!”.