Nelle terre del Timorasso
“Uscir nella brughiera di mattina dove non si vede a un passo…” e ” Seguir con gli occhi un airone e poi ritrovarsi a volare”
Le rime poetiche di Mogol-Battisti mi aiutano ad iniziare il resoconto di una giornata da annoverare tra quelle da ricordare.
Parto da Pavia con una nebbia tipica della brughiera che, fortunatamente, si dissolve alla comparsa di un bel sole, rimasto ad illuminare il mio cammino dietro ad un airone chiamato Timorasso, foriero di vere emozioni.
Mentre il sole delle Valli Tortonesi comincia a scaldare le mie padane membra, l’airone plana nell’Azienda la Colombera di Vho (Tortona).
Qui sono accolto dal titolare, Piercarlo Semino e da sua figlia Elisa (dal 1998, l’etichetta “Elisa”, apparirà sulla Barbera della Vigna Brusà).
Senza tanti preamboli Piercarlo mi fa assaggiare il suo stupendo Montino, un Derthona derivante da vigneti impiantati nel 1998, nelle annate 2012 e 2011.
Poi l’airone si alza di nuovo in volo per elevarmi maggiormente nella comprensione del Timorasso e mi conduce presso un altro fautore di codesto nettare, Claudio Mariotto, sulla strada che da Vho conduce a Sarezzano.
L’Azienda Claudio Mariotto-Vignaiolo in Vho, dal 1920, ha continuato ad espandersi sino ad arrivare all’attuale superficie vitata superiore ai 30 ettari, di cui 15 a Timorasso, con anche vigne vecchie di quasi 40 anni.
Lui mi aspetta all’ingresso dell’hangar che fa da cantina, hospitality e magazzino.
Su un tavolo, apparecchiato a festa, ci sono vassoi di salumi e formaggi e le bottiglie dei suoi cru più blasonati, Pitasso e Cavallina, entrambi del 2009.
Sono annate stupende ma ancor di più quelle del 2004 e 2003, che apre in un continuo crescere di grande emozione.
Chiudo gli occhi e deglutisco una cospicua sorsata di stupore enoico e penso che la vita è bella e compiango quelli che scelgono di privare le loro gole, le loro papille gustative, financo i loro cuori e cervelli, di tanta meraviglia.
Sono sempre più sorpreso dalla longevità di questo vino: il Pitasso 2002 (di un bel colore oro vivace), ha palesato un finale lungo, fresco e sapido, dimostrando di poter tener testa a vini ben più blasonati.
Le mie nari s’impregnano dei preziosi aromi volatili che arrivano fino agli occhi e il nettare mi scorre piacevolmente in gola, mentre il palato si distende all’infinito.
D’un tratto Claudio si alza e mi fa cenno di seguirlo.
Mi conduce in mezzo alla vigna contigua alla cantina: un poema bucolico reso ancor più idilliaco da cespugli di rose disseminati a perdita d’occhio e accarezzando delicatamente i petali di un bocciolo giallo come le bacche del Timorasso, mi narra di avventure vissute in mezzo a quello spettacolo della natura, con un sarcasmo abbinato alla naturalezza più verace.
Poi ritorniamo sui nostri passi rientrando nell’hangar e lì Claudio stappa altre bottiglie, una dietro l’altra, come in una catena di montaggio, anzi di smontaggio.
Stappa e mi offre i vari cru nelle varie annate e mi parla dei suoi vini come fossero suoi figli e mi dice che nessuno è profeta in patria, perché, paradossalmente, quelle creature che abbiamo nel bicchiere sono più apprezzate all’estero che da noi e quel pallet lì (indicando una montagna di 500 bottiglie), è pronto per partire per Yokohama e quell’altro per l’America e così via.
Claudio mi trasmette la passione per il suo lavoro e mentre elaboro nella mia mente il desiderio di ritornare ancora da lui, l’airone si alza nuovamente in volo e libera il suo canto solcando maestoso il cielo sopra le vigne di Timorasso.
Io lo guardio incantato e poi guardo i filari da cui scaturisce il prezioso nettare e poi ancora gli occhi verso “il cielo vicino e lontano” di dalliana memoria.
Poi seguo a vista la mia volatile guida che mi conduce prima in una direzione e subito dopo in quella opposta, poi mi fa salire per numerosi tornanti, poi vira per una stradina tra le vigne, poi ritorna sulla strada maestra e mi fa attraversare un piccolo borgo di case e subito dopo fa una curva ad u e mi sembra di ritornare ancora sulla strada appena percorsa.
Mi viene in mente Venditti: “Certi amori fanno dei giri immensi e poi ritornano” e comincio a capire che l’amorevole progetto aironiano è quello di farmi familiarizzare con questa terra e coi suoi abitanti che hanno le stesse facce della Fiumana di contadini in sciopero rappresentati con grande forza espressiva nel “Quarto Stato”da Giuseppe Pelizza, talmente attaccato alle sue origini al punto da aggiungere “da Volpedo” alla propria firma.
L’ airone passa proprio sopra la casa studio, dove il celeberrimo pittore divisionista s’impiccò, non ancora quarantenne, in seguito ad una profonda crisi depressiva causata dalla morte della moglie e rallenta il suo volo, quasi a rendere omaggio a questo grande figlio di questa grande terra e poi mi conduce, attraverso la costa Ronco, a Monleale, presso un’ altra grande leggenda locale: Renato Boveri, 92 anni di vita vissuta tra i filari e 82 vendemmie, una voglia matta di vivere che ti coinvolge.
Renato è nato a Monleale il 5 febbraio 1922 e il titolo di patriarca del Timorasso dei Colli Tortonesi, gli spetta di diritto.
La sua Azienda è stata fondata a Monleale a metà del secolo scorso dal capostipite Bartolomeo e poi proseguita dal figlio Faustino, il quale ha posto le basi con semplicità e grande vigore, per una lunga discendenza di vignaioli rinomati, non solo in Piemonte.
Con il tempo l’Azienda è cresciuta sino ad una estensione di otto ettari (da cui si ricavano 20.000 bottiglie), curati nel vero senso della parola da Renato, aiutato dalla moglie Sonia e dai figli Fausto e Danilo.
Nell’attuale Azienda Agricola Renato Boveri, la saggezza contadina si fonde con le innovative tecniche di coltivazione: una difesa fitosanitaria, a basso impatto ambientale e una vinificazione sapiente.
Appena mi vede arrivare mi fa subito entrare in casa, da cui, attraverso una ripida scala interna, scendiamo in cantina.
La cantina della sua casa è anche la cantina della sua Azienda.Sembra impossibile che in questo luogo così angusto sia riuscito a creare prodotti di così grande livello.
In cantina, quasi appollaiate tra le botti, ci sono due stupende fanciulle (Janet e Roberta) che Boveri aveva abbandonato per salire ad accoglierci.
Prima di dare inizio alla degustazione, le vuole vicino a sè e, mentre le abbraccia, chiede di essere immortalato con loro in una foto ricordo.
Porge il suo telefonino di ultima generazione nelle mie mani e, mentre va a mettersi in posa, lo sento sussurrare alle sue ninfe che lui è longevo come i suoi vini perché si circonda sempre di belle donne e le coccola riempiendole di attenzioni, proprio come fa con i suoi nettari.
Diavolo d’un Boveri!
Mentre aspettiamo che ci serva i suoi vini ne approfitto per fargli qualche domanda:
d: Vai ancora sul trattore?
Renato: Si! Sul trattore, sulla macchina, per me è uguale.
d: Quanti trattori hai?
Renato: Sette e me li curo tutti io!
d: Ma cosa te ne fai di sette trattori?
Renato: Ad ognuno c’è attaccato il proprio macchinario (il rimorchio, la trincia ecc.), così son già pronti per quando devo andare in vigna.
d: Hai cominciato ad andare in vigna che non avevi neanche 10 anni. Te li ricordi quegli anni?
Renato: Mio padre Faustino mi ha messo sotto a lavorare in vigna che ero ancora un bambino.
Avevo otto anni e mio padre mi diceva: ”Alle quattro, finita la scuola, torna a casa, prendi il carro con i buoi e vieni nella vigna, che tagliamo l’erba da dar da mangiare alle bestie”.
Era sottufficiale di cavalleria e non scherzava. Si è fatto sette anni sotto le armi, senza mai venire a casa: cinque anni a Tripoli, poi in Albania e infine a Trento e Trieste.
A volte, perché capissi bene, batteva un pugno sul tavolo e io andavo coi buoi nella vigna senza discutere. Altroché studiare!
Tuttavia, ho preso lo stesso la licenza elementare.
Ho frequentato le scuole a Monleale, fino alla quarta poi, tutti i giorni a piedi, avanti e indietro, fino a Volpedo, dove ho fatto la quinta.
Però i miei tre figli li ho fatti studiare, fino a prendere la laurea, anche se da piccoli li facevo venire in cantina a darmi una mano.
Sul muro, a metà della scala che porta in cantina, c’è ancora l’impronta violacea della manina impregnata di vinaccia, che uno di loro ha stampato sull’intonaco bianco.
A tredici anni ero già un mezzo uomo.
d: Parli solo e sempre di lavoro. Ma ti sarai pure divertito da giovane?
Renato: Andavo a ballare, col chiaro di luna e con gli sci ai piedi. Aspettavo che passasse lo spartineve trainato dai buoi, poi sciavo fino a Montemarzino.
Scendevo giù in corso Roma, a Monleale basso e, di lì, mi facevo gli otto chilometri, fino alla balera.
Mi piaceva ballare. Certe volte, alla domenica, andavo con altri miei amici ballerini in giro a dare spettacolo.
d: Ti ricordi com’è stata la tua prima vendemmia?
Renato: Della prima non mi ricordo molto ma nei miei ricordi c’è una vendemmia che non dimenticherò mai.
Era il 2 ottobre 1935. Io avevo 13 anni e Mussolini dichiarava guerra all’Abissinia.
È cominciato a piovere al mattino presto e non ha più smesso per giorni e giorni.
Era la prima volta che vedevo raccogliere l’uva coi secchi.
Come mettevi giù il grappolo, si pigiava da solo, talmente era impregnato.
Io e un altro ragazzo della mia età, passavamo nella vigna con la gerla in spalla, a piedi scalzi e ci mettevano dentro i grappoli e, quando era piena, andavamo a vuotarla sul carro coi buoi che, non potendo entrare in mezzo alla vigna, restava ad aspettare sul sentiero.
Facevamo centinaia di metri, avanti e indietro per la vigna, su e giù, con il nostro carico sulle spalle.
Era una fortuna che salivamo scarichi ma, anche fare la discesa con quel peso sulle spalle, non era uno scherzo!
Abbiam portato in spalla 300 quintali d’uva in due, di corsa, perché la gente raccoglieva e l’uva non poteva restare tanto nelle ceste, perché colava e doveva essere portata alla svelta in cantina, per recuperare quel poco che si poteva.
Quelli che avevano i vigneti in alto, a Montemarzino e Monperone, riempivano i carri con quell’uva quasi marcia e, venendo giù sulla strada verso la cantina sociale, lasciavano una scia di mosto sullo sterrato.
La terra si era talmente tanto impregnata di succo d’uva che era diventata rossa.
Ma alla fine qualcosa si è salvato, anche se il vino ottenuto non superava i 7/8 gradi.
Ancora una volta hanno ragione i proverbi: “l’è mej marsetta che bruschetta”, vale a dire che è ancora meglio l’uva, anche un po’ troppo avanti nella maturazione (marsetta), che l’uva acerba (bruschetta). Io ho sempre vendemmiato a ottobre, perché l’uva matura a ottobre e faccio così ancora oggi. Ma i tempi son cambiati, perché tutti vanno a gara a raccogliere l’una sempre più acerba.
d: Tu potresti essere considerato l’antesignano dei Vini Naturali perché hai sempre rispettato la vigna e ascoltato la voce della natura. Hai evitato di fare trattamenti che non fossero strettamente necessari, cosa che magari poteva renderti la vita più facile in campagna.
Renato: E’ vero. Ho sempre pensato che la terra bisogna prenderla com’è e io prendo quello che mi dà, così come me lo dà.
Io la terra non l’ho mai forzata, l’ho sempre rispettata e sono sicuro che in questo modo il prodotto che ottengo è genuino.
Dalle nostre parti c’è un proverbio che dice: “Al vin bòn às fa a cà di plandròn”, che vuol dire che il vino buono si fa in casa di quelli che non fanno troppe lavorazioni, né in campagna, né in cantina (pelandroni).
Io non ho mai aggiunto acqua alle mie vigne, anche nelle annate in cui erano aride.
Poi finisce che raccolgo l’uva quasi asciutta ma va bene così.
L’uva migliore me l’ha dà la vigna Sant’Ambrogio, che è a metà strada tra Monleale alto e Monleale basso, proprio dove c’è la cappelletta votiva di Sant’Ambrogio.
Sono quasi due ettari di viti molto vecchie, che sono lì dagli anni ’20, con delle radici che vanno a cercarsi l’acqua a fondo nel terreno.
d: Ho capito bene? Hai detto che la vigna Sant’Ambrogio è del 1920?
Renato: Sì! Ha quasi 100 anni. Dicono che sia la vigna più vecchia d’Italia. Ci son scienziati che vanno e vengono per studiarla.
Assaggio varie annate dei suoi Timorasso (e Barbera), in un crescendo strepitoso.
Alla tarda ora mi stacco a malincuore da questo uomo e da queste terre.
Ormai l’airone se n’è tornato al suo nido, contento di aver portato un nuovo adepto alla causa del Timorasso.
La Colombera – Azienda Agricola Piercarlo Semino
Strada Comunale Vho, 7 Tortona (AL)
Azienda Claudio Mariotto- Vignaiolo in Vho
Strada per Sarezzano, 29 Tortona (AL)
Azienda Agricola Renato Boveri
Strada Costa del Ronco, 2 Monleale (AL)